Jimi Hendrix sognava la libertà assoluta, e l’ha raggiunta su Hey Jude Magazine
18 Settembre 2020

«Are You Experienced? è stato uno degli album più immediati che abbiamo fatto, ma più tardi, quando ci siamo interessati ad altre cose, la gente non è riuscita a capire il cambiamento. D’ora in poi ho intenzione di usare sempre gente diversa per le mie sessions, i nomi non hanno importanza. Ciò che importa è il feeling, averlo o non averlo: il mio successo iniziale è stato un passo nella direzione giusta, ma solo un passo, ora voglio fare molte altre cose». Potrebbe essere riassunta con queste parole la voglia di cambiamento di Jimi Hendrix a soli pochi mesi di distanza dal successo di Electric Ladyland, album del 1968, il terzo da studio uscito nel lasso di tempo di soli due anni. Per essere riconosciuto, nel 1967 Jimi aveva dovuto sbarcare a Londra, che l’aveva accolto come un dio pagano giunto da un pianeta distante. D’altra parte, con tutto il substrato di razzismo che ne permeava l’animo, i natii Stati Uniti non avrebbero potuto accettare che un musicista di colore diventasse un punto di riferimento per i propri rampolli. Il Paese era denso di contraddizioni: culla di alcuni dei maggiori esponenti della controcultura del Novecento ed epicentro della rivoluzione artistica degli anni Sessanta, allo stesso tempo utilizzava i propri servizi segreti per controllare le azioni di studenti, musicisti, poeti e scrittori.

I tempi della paura che le movenze lascive di Elvis potessero traviare le menti dei giovani americani erano ormai un ricordo lontano. In quel preciso momento storico, i politici yankee avevano piuttosto i fari puntati sulle parole di gente come Bob Dylan, Jim Morrison o John Lennon, capaci di arrivare a larghe masse di persone, influenzare la loro percezione del mondo, smuovere le coscienze di un’ingente fetta di potenziali elettori. Quelle parole rappresentavano un pericolo reale e Jimi parlava il loro stesso linguaggio. Per l’Inghilterra, Hendrix non rappresentò quindi solo un fulmine a ciel sereno in ambito musicale, ma portò con sé tutto quel bagaglio culturale e ideologico che aveva fatto dell West Coast degli States la culla del movimento hippie e della contestazione. Jimi credeva fortemente nelle grandi utopie della sua epoca: la fantasia al potere, la musica come mezzo attivo per cambiare il mondo e la rivoluzione dei costumi non erano il frutto di una mente ingenua o fuori dalla realtà, ma qualcosa cui dedicarsi con tutto se stesso.

Prima del suo arrivo, i riferimenti musicali dei giovani europei erano rappresentati soprattutto da Beatles e Rolling Stones, gruppi che, sebbene fossero riusciti a scardinare norme radicate nel tempo, erano comunque formati da maschi bianchi della middle class. Gli stessi Jagger e Richards, che si atteggiavano a delinquenti da strada, in fin dei conti non erano altro che dei ragazzi privilegiati come tanti. Come ha sottolineato giustamente Charles Shaar Murray nel volume Jimi Hendrix: Una chitarra per il secolo, se i Beatles furono amabilmente sfacciati verso l’autorità, i Rolling Stones la schernirono e Bob Dylan prima l’accusò e poi non la considerò più, Hendrix, semplicemente, agì come se essa non ci fosse. Il chitarrista di Seattle rappresentò un pugno nello stomaco in grado di tirare fuori i sentimenti più animaleschi e contradditori delle nuove generazioni occidentali, quelli che nessuno osava confessare. Era un puro, un istintivo, ma tutto sommato anche un personaggio decisamente naïf: cresciuto nel crogiuolo culturale afroamericano, aveva prestato servizio nell’esercito dello Zio Sam senza perdere un briciolo della propria innocenza e credibilità.

Billy Cox, che di Hendrix non era stato solo compagno di band ma anche amico fidato, non ha mai avuto dubbi sul momento esatto in cui Jimi comprese che il successo non avrebbe potuto renderlo uno dei tanti: «A Woodstock mi diede l’impressione di essere finalmente sereno: lottava da sempre contro i propri demoni, ma sembrava aver capito quello che voleva fare e quello che fosse giusto per lui. In realtà il suo umore e i suoi stati d’animo cambiavano in continuazione, sentiva il peso di tutto quello che lo circondava, sapeva di avere grosse responsabilità come prima superstar di colore ed essendo un puro, spesso pagava per la propria ingenuità. Se fai caso alle sue dichiarazioni degli ultimi due anni di vita, dalle sue parole potrai notare le forze interiori contrarie che ne minavano l’anima: sapeva che la visibilità poteva permettergli di dare messaggi all’umanità, ma allo stesso tempo temeva di compromettersi con dichiarazioni che poi sarebbero state utilizzate in modo sbagliato. Quel che è certo è che buona parte del pubblico avrebbe sempre voluto vedere l’indemoniato che si contorceva sul palco e dava fuoco alla chitarra, mentre Jimi si era stancato di quelle cose da diverso tempo».

Ed è proprio per via di quella voglia continua di rinnovarsi, di superare i propri limiti, che gli anni che separarono il chitarrista di Seattle dalla prematura scomparsa resteranno per sempre oggetto di studio da parte di critici e addetti ai lavori. Trovata una formula, Hendrix avrebbe potuto replicare all’infinito i medesimi stilemi; invece decise di passare gli ultimi anni della sua vita chiuso in vari studi di registrazione, attorniato da band che cambiavano di continuo e senza riuscire a trovare quello che stava cercando. O meglio, trovandolo solo in parte. Il vero problema fu che, proprio a causa di quei conflitti interiori, oltre che per l’utilizzo smodato di sostanze, Hendrix aveva cominciato presto a perdere il controllo della situazione, sempre più invischiato all’interno di dinamiche più grandi di sé e della propria fragile psiche. Dinamiche che ne condizionarono tanto la vita sociale quanto, di riflesso, quella artistica. Chi gli stava intorno, chi ne gestiva gli affari e ne intascava i profitti, aveva finito per imbrigliarne la forza creativa, cercando di sfruttarne la fama contrastandone la naturale voglia di sperimentare e di superare i confini della propria musica. I promoter stessi cominciarono ad ingaggiarlo affinché eseguisse semplicemente i classici della propria discografia, sempre nello stesso modo, quasi fosse un clown da circo.

Lui, invece, dopo un album di debutto come Are You Experienced? aveva spostato il baricentro della propria creatività verso lidi completamente diversi, spinto da una sensibilità che lo portava a non accontentarsi di un effimero successo di pubblico che, comunque, inizialmente aveva ricercato con tutte le forze. «Se sono libero è perché continuo a correre», era solito dire a chi gli chiedeva quale fosse la forza che lo spingeva a non riposare sugli allori, ma a continuare la propria ricerca. Insomma, proprio come Jim Morrison e il concittadino Kurt Cobain, a un certo punto Hendrix si trovò a lottare contro forze altamente contraddittorie che avevano preso possesso della sua mente: da una parte, la legittima voglia di notorietà di un artista convinto di avere molto da dire, e dall’altra quella routine fatta di impresari, falsi amici e da quella parte di pubblico che andava a sentirlo solo per vederlo suonare coi denti o bruciare una delle sue chitarre. A tutto ciò si univano le tensioni politiche legate alla figura di primo musicista nero a ottenere un successo planetario: chi meglio del più celebre chitarrista al mondo avrebbe potuto tenere alta la bandiera dei diritti dei suoi fratelli? Dalla fine del 1968 in poi Jimi iniziò quindi a prendere coscienza del rischio di trasformarsi in una sorta di burattino nelle mani sbagliate, oltre al fatto di aver alimentato in prima persona tutte quelle dinamiche disfunzionali che lo tenevano in una gigantesca gabbia emotiva, prima ancora che economica.

Fu proprio in quel momento che iniziò a maturare l’idea di una musica nuova, non solo meno immediata che in passato, ma in grado di farsi portatrice di messaggi universali di fratellanza. L’esperimento della Band Of Gypsys, composta da soli musicisti di colore, ma soprattutto le registrazioni effettuate fino ai giorni appena precedenti alla scomparsa, mostrano infatti un musicista dalla mente apertissima e desideroso di superare i canoni classici del rock, per creare qualcosa di completamente inedito. Fino ad allora, il perfezionamento infinito delle liriche dei brani non era mai stata una delle sue prerogative: se un testo era nato in un determinato modo, sarebbe stato un errore rimetterci le mani, rischiando di fargli perdere spontaneità. Al contrario, le decine di registrazioni effettuate tra il 1968 e il 1970 dimostrano quanto egli fosse perennemente insoddisfatto dei nuovi brani e che nulla venisse lasciato al caso. Di riflesso, anche il suo approccio alla chitarra cominciò a cambiare senza sosta. Se si ascolta attentamente la messe di nastri registrati in quegli anni è infatti possibile accorgersi di quanto il suo stile avesse iniziato a virare versi territori prima inesplorati, capaci di portare alla luce un’altra parte della sua anima, quella più vicina al jazz tout court.

Così, proprio mentre il sogno di uno studio personale in cui sentirsi a casa stava per divenire realtà, Jimi si divideva tra il Cry Of Love Tour, in cui pur presentando qualche nuovo brano era costretto a ripetere sempre più stancamente i vecchi cliché, e interminabili session in compagnia di vecchi amici come Stephen Stills, Mitch Mitchell e Billy Cox. Finalmente libero dalla pressione di pubblico e manager. Ecco probabilmente dove voleva arrivare Hendrix: alla libertà assoluta, al poter decidere della propria vita e della propria creatività senza influenze esterne di nessun tipo. Alla luce di questo, Freedom, splendido brano pubblicato nel 1971, pochi mesi dopo la sua morte, finisce per assumere un significato molto più elevato di quello ipotizzato dallo stesso Jimi. «Non so se arriverò a compiere ventotto anni, ma ho vissuto così tanti momenti incredibili nel corso degli ultimi due anni da ritenermi assolutamente soddisfatto. Sento una musica nella mia testa che non sono riuscito ancora a sviluppare, ma sto completando più di quaranta tracce che andranno a comporre i miei prossimi lavori. Quando morirò continuate ad ascoltare i miei dischi». Mai dichiarazione fu più profetica.

Tratto dal libro “Le leggende del rock” di Luca Garrò

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