Inchiesta su Andy Warhol, un razzista da cancellare? Il libro di Enrico Pitzianti su Che Fare
5 Febbraio 2021

Il 1963 cominciò con notizie ostili per Andy Warhol: il suo lavoro era appena stato rifiutato da alcune delle più grandi istituzioni dell’epoca. Nemmeno la Biennale di Venezia lo aveva voluto: il padiglione degli Stati Uniti aveva incluso le opere di molti altri, ma non la sua. Nell’aria però, oltre al disappunto, c’era comunque il profumo di nuove speranze: Andy sin dall’anno precedente stava lavorando, su invito di Philip Johnson, architetto e curatore del MoMA, a un progetto molto ambizioso, cioè la sua prima opera di arte pubblica. Che si rivelerà poi essere anche l’ultima.

L’installazione sarebbe dovuta apparire l’anno successivo nel padiglione dello Stato di New York, durante la Fiera mondiale del 1964 che si tenne proprio nella Grande Mela. Un evento di dimensioni mai viste per l’arte di Andy e degli altri artisti invitati a esporre nella prestigiosa venue. Tra loro, Robert Indiana disse che probabilmente ci sarebbe stata «più attenzione e più copertura mediatica di questo evento che di qualsiasi altra cosa io potessi fare». E aveva ragione: si parlava di settanta milioni di visitatori complessivi alla fiera, che prevedeva la partecipazione di venticinque Stati americani e ottanta nazioni. Un pubblico immenso, che nessun museo o mostra avrebbe mai raccolto nemmeno nella più rosea delle occasioni. Esporre al di fuori di un padiglione, anzi, coprire interamente la sua facciata con un’opera d’arte, avrebbe garantito a chiunque di vederla. E qui nasceva un dilemma. Che opera esporre?

Nonostante Philip Johnson avesse invitato Andy già nel 1962, la primavera dell’anno successivo i dubbi su cosa scegliere erano ancora insormontabili. Un’occasione così non andava sprecata, bisognava proporre qualcosa di forte, iconico, che rimanesse impresso nella memoria collettiva e che, naturalmente, piacesse. La scelta, stando a quanto si racconta, avvenne all’incirca così: Andy si trovava a pranzo con Ray Johnson, un performer e collagista di Detroit che in quegli anni stava avendo un enorme successo grazie al trampolino della Pop Art, e Wynn Chamberlain, altro grande nome del nuovo movimento artistico.

I tre iniziarono a parlare di lavoro, e anche dei possibili soggetti da esporre alla tanto attesa fiera, quando Chamberlain se ne uscì con un’idea fin troppo eccentrica: esporre i ritratti dei ricercati dalla polizia. Il suo fidanzato, un poliziotto, se li portava sempre a casa stampati sui volantini.

Va considerato che quel pomeriggio, intorno al tavolo, non c’era neanche l’ombra di un eterosessuale, e la cosa ebbe una certa influenza: Warhol, Chamberlain e Johnson erano tutti e tre gay e l’idea di esporre foto di uomini sconosciuti assieme alla scritta «Most wanted men!» (che in italiano si tradurrebbe con “Gli uomini più ricercati”, ma il verbo inglese “to want” permetteva di tradurre anche come “Gli uomini più desiderati”) doveva essere irresistibile. Il doppio senso erotico, chiaramente di ispirazione omosessuale, faceva sicuramente al caso della sensibilità warholiana, visto che la liberazione dell’omosessualità lo interessava in prima persona.

C’era di più: l’idea sarebbe stata considerata scandalosa, avrebbe fatto parlare i media, monopolizzando le attenzioni, e nel frattempo anche dato spazio a dei reietti, a degli ultimi e dimenticati che mai, in quel periodo, potevano ambire a godere di attenzioni simili. L’opera avrebbe dovuto essere larga sei metri per sei, e la forma quadrata si prestava perfettamente a ritrarre una serie di primi piani come quelli delle foto segnaletiche, i mug shot, come si chiamano in inglese. Senza contare che elevare a soggetti artistici dei criminali sarebbe rientrato perfettamente nell’abitudine di Andy di “divinizzare” i propri soggetti, renderli famosi, dei divi e, nel caso in cui già lo fossero, esagerarne e cementificarne l’iconicità.

Divinizzare i propri soggetti, renderli famosi, dei divi

Insomma, l’idea era perfetta, ma chi mai avrebbe apprezzato delle gigantografie di criminali e ricercati di New York all’entrata di un padiglione fieristico visitato da milioni di famigliole della classe media americana? E la politica, come avrebbe reagito la politica? Si trattava di domande di un certo peso, soprattutto perché quello era un evento pubblico. Come del resto accadeva spesso, le polemiche di questo tipo preoccupavano Andy relativamente, anzi lo stuzzicavano: la provocazione era, e doveva essere, una parte dell’anima dell’opera d’arte. Altrimenti non si parlava d’arte, ma di arredamento senza scopo. E poi esporre delle foto segnaletiche di ricercati avrebbe creato un collegamento perfetto tra le sue serie più conosciute, come i ritratti dei divi del cinema e la serie intitolata Morte e disastri, più cupa, sconosciuta e tragica. In questo modo, quella dei mug shot, da una semplice intuizione divenne un’opera vera e propria. Arrivò il momento dell’installazione.

L

a fama che sarebbe conseguita dall’esporre in una delle manifestazioni più ambite e celebri del periodo avrebbe senza dubbio fatto dimenticare a Warhol l’esclusione da Venezia. Ma le cose, ormai lo avrete capito, andarono diversamente e, per la precisione, andarono male. Molto male. Il tema della fiera era, come lo sono sempre i temi delle esposizioni di questo tipo, mieloso e ipergenerico: “La pace e il posto dell’essere umano nel mondo in cambiamento”. Ok, è vero che quando i temi sono così vaghi e fumosi sono pensati appositamente per permettere a chiunque di presentare qualsiasi opera o idea su qualsiasi soggetto. Un po’ come i titoli dei temi scolastici che vengono commissionati agli alunni delle scuole elementari. Ma è vero altrettanto che quei temi così banali sono pensati anche per tenere le redini di un certo politicamente corretto: “il posto dell’uomo nel mondo in cambiamento” è una frase che indirizza i partecipanti verso pomposi discorsi di facciata sulla salvaguardia della natura, sulla retorica della pace nel mondo e sulla solita fine della guerra e della violenza.

Insomma vaghezza sì, ma si trattava comunque di tenere un tono istituzionale, non era certo un invito a esporre dei galeotti. Tredici ricercati, tredici most wanted men fotografati dalla polizia nel 1962 giganteggiarono sulla facciata del Theaterama, il più in vista tra tutti gli edifici della fiera newyorkese. Subito si cominciò a parlare dell’opera: in città le voci girarono in fretta ‒ succede oggi coi social network, ma succedeva anche allora che i social non c’erano ‒ e le reazioni furono, perlopiù, di sconcerto. Il primo dei feedback, a dire la verità, fu positivo: sull’edizione di febbraio di uno dei magazine più letti nel mondo della moda, «Harper’s Bazaar», Andy appariva in una foto con i suoi carismatici occhiali neri insieme agli altri artisti impegnati nelle installazioni e le parole usate in quel primo articolo erano prive di qualsivoglia negatività.

 

Ma già a marzo le cose cambiarono: la stampa fu prima invitata dalla dirigenza della fiera a considerare che quell’opera veniva dalla necessità di raccontare «aspetti sociali della vita americana», come a voler mettere le mani avanti su possibili stroncature e critiche. Più tardi venne invitata a non parlarne affatto. I commenti di Jimmy Breslin, uno dei giornalisti più famosi dell’epoca, furono durissimi: schernivano l’opera facendo del sarcasmo sull’opportunità di piazzare i volti appartenenti a dei criminali in un evento simile e arrivavano persino a deridere i soggetti rappresentati (il rispetto della dignità di accusati e condannati, al tempo, non era troppo di moda). Ed eccoci al punto. L’opera non vide mai la luce perché a distanza di pochi giorni dall’installazione fu coperta di vernice.

A distanza di pochi giorni dall’installazione fu coperta di vernice

La fiera non aveva ancora aperto al pubblico, erano ancora i giorni dei preparativi, quelli degli operai che vanno e vengono, dei mezzi che trasportano immensi imballaggi e tirano su capannoni in poche ore. Il pubblico non vide mai l’unica opera di arte pubblica realizzata nella carriera di Andy Warhol. Philip Johnson, che quell’opera l’aveva commissionata, aveva previsto che sarebbe rimasta esposta per almeno due anni. Ma anziché due anni durò due giorni. Andy fu censurato.

Non si sa bene se la causa furono le pressioni politiche sulla fiera (il governatore di New York avrebbe tentato l’elezione di lì a poco) oppure le lamentele dei privati cittadini indignati, fatto sta che quell’opera venne coperta proprio come oggi i comitati “antidegrado” fanno coi graffiti e i murales. Girò addirittura voce che fu lo stesso Warhol a censurarsi: lo dichiarò lui stesso in un’intervista al «New York Times» spiegando che uno dei tredici accusati esposti nell’opera era stato scagionato, e che di conseguenza l’opera non era più “valida”. Ma probabilmente quello fu solo un tentativo di salvare la faccia.

Viene naturale, oggi, rimpiangere quell’opera mai esposta, tanto quanto definire gretto quell’atto di censura: è normale. Attenzione però: siamo davvero sicuri che al giorno d’oggi, un’installazione simile, sarebbe stata accolta a braccia aperte? Non credo, anzi, sono certo che avremmo ricoperto l’artista di critiche feroci. Vi dico di più, sarebbe successo per delle buone ragioni, perché quell’opera oggi sarebbe un simbolo di razzismo e classismo inaccettabili.

Quell’opera di Warhol oggi sarebbe un simbolo di razzismo e classismo inaccettabili

Vado con ordine. Innanzitutto esporre indagati o detenuti al pubblico ludibrio oggi sarebbe del tutto inaccettabile: lo abbiamo imparato coi social e ormai lo abbiamo capito quasi tutti, non si può pubblicare la foto di qualcuno senza il suo permesso. Il tutto sarebbe stato reso ancora più grave visto che Warhol lo faceva a scopo di lucro (ben seimila dollari, che al tempo corrispondevano a una cifra enorme). Ma la questione della privacy è la meno importante: se davvero facciamo l’esperimento mentale di immaginare quella stessa opera nel nostro presente ci sarebbero stati problemi ben più gravi. Uno su tutti il giustizialismo. Tra quei tredici uomini c’erano alcuni condannati, ma la maggior parte erano dei semplici ricercati che non erano ancora stati giudicati. Chi aveva detto a Andy che basta essere accusati di qualcosa per potersi vedere esposti, con le foto segnaletiche della polizia, a una fiera a mo’ di provocazione? Oggi l’avvocato degli accusati, e anche quello dei condannati, porterebbe Andy Warhol alla bancarotta a suon di querele.

Il tema dell’opportunità di esporre pubblicamente nomi e volti di persone indagate e non ancora condannate è uno dei più discussi e centrali nel dibattito pubblico contemporaneo. Sui social sono tanti i personaggi, anche politici, che per reagire alle centinaia di insulti che ricevono quotidianamente fanno screenshot e diffondono nomi e cognomi degli hater.

Difficile dire se questa sia davvero una strategia efficace: magari effettivamente disincentiva i nuovi “leoni da tastiera”, quelle persone che, spesso per via di inesperienza, ignoranza e limitatezza, considerano internet un luogo in cui è ammesso offendere, augurare la morte o lo stupro a chiunque impunemente (magari mossi soltanto da differenze di vedute sulla politica o la Serie A).

O se invece sia meglio non esporre gli hater alla gogna mediatica, ma denunciarli in modo da innescare procedimenti legali che porteranno, sul breve periodo, a un risarcimento per calunnia e sul lungo periodo a una legge sulla violenza verbale e il bullismo online. Ma questo è il presente, le nostre sensibilità politiche sono determinate in tutto e per tutto dal web, da questa nuova piazza in cui non ci sono confini fisici ma solo miliardi di possibilità comunicative che, per il momento, evolvono in un regime di sostanziale anarchia.

Oggi le nostre sensibilità politiche sono determinate in tutto e per tutto dal web

I tempi della fiera di New York a cui partecipò Warhol erano completamente diversi. Tanto diversi che esporre il volto di uno sconosciuto, per un artista, non solo non era sanzionabile, ma non faceva scandalo nemmeno tra i diretti interessati. Oltre alla privacy violata e il giustizialismo, che oggi sarebbero sufficienti a far arrivare feedback impietosi alla casella mail di Andy Warhol, quell’opera avrebbe avuto un altro problema: il razzismo.

Ben sette di quei volti, infatti, appartenevano a cittadini italiani o originari del nostro Paese. Se l’artista facesse un balzo dal 1964 e arrivasse dritto nel presente si stupirebbe così tanto da rimanere disorientato, come i viaggi nel tempo che avvengono nei romanzi di fantascienza. Scoprirebbe che quel suo gesto colpevole di razzismo implicito è il peggiore dei suoi errori, peggio del giustizialismo e sicuramente anche della violazione della privacy. Gli italiani, in quel periodo, non venivano considerati “bianchi”. Nei fatti e spesso anche nelle parole e nelle disposizioni di legge, erano cittadini di seconda categoria, portatori di criminalità e migranti senza diritti se non quello di fungere da capri espiatori. Andy questo lo sapeva: le vicende di migranti italiani uccisi negli Stati Uniti erano già celebri.

L’italiano Andrea Salsedo morì precipitato dal grattacielo in cui aveva sede l’Fbi ancor prima che Andy nascesse, e Sacco e Vanzetti, già allora nomi celebri a proposito di razzismo e brutalità verso i migranti, erano già stati uccisi ingiustamente sulla sedia elettrica quando il re della Pop Art veniva al mondo. All’epoca, a dirla tutta, qualcuno a cui non piacque che l’opera ritraesse soltanto “criminali” italiani ci fu. Si trattava del governatore dello Stato, Nelson Rockefeller. Ma la sua intenzione non era quella di proteggere una minoranza da uno stereotipo e da un pregiudizio, bensì di preservare il proprio bacino di voti. Il politico, infatti, in quei mesi stava preparando la sua corsa alla rielezione e temeva che lo scandalo dovuto all’opera di Warhol gli avrebbe fatto perdere i voti di una comunità numerosa.

Aveva ragione a preoccuparsi, perché l’opera poteva anche essere stata notata, e perfino apprezzata, da qualche collezionista o intellettuale, ma le famigliole passeggianti avevano gusti decisamente diversi. «Thugs at the Fair? Nobody wants to see their distasteful pictures. Why not concentrate on beauty instead of criminals and crime?», commentò un residente del Queens intervistato dal «New York Journal-American». «Criminali alla fiera? Nessuno vuole vedere queste immagini disgustose. Perché non concentrarsi sulla bellezza anziché sui criminali?»

I fallimenti però a volte sono persino utili. Quell’opera fallita, obbligata a sparire, abortita a pochi giorni dalla sua esposizione, tornerà prepotentemente a emergere. E non accadrà a caso: quella stessa estate, a fiera ormai conclusa e sogni di gloria abbondantemente evaporati, Warhol si mise a lavoro per produrre un’altra serie su quegli stessi volti, con le stesse foto e lo stesso titolo. Usò le medesime serigrafie usate per l’installazione murale e in pochi giorni ebbe venti opere in formato ridotto che rimasero lì nel suo studio a ricordargli un insuccesso e a spronarlo, stimolarlo e a ricattare il suo ego perché di fallimenti non ne potesse far capitare altri. Fino alla morte nel 1987 quelle opere non furono mai esposte.

La sua serie sui criminali, sul doppio senso degli “uomini più voluti d’America”, senza un pubblico, non poté innescare il suo effetto di senso. Ma alcune storie, e alcune opere, rimangono vive anche dopo la scomparsa di chi le ha create e così, in Inghilterra, in un 2014 per Andy futuristico e inimmaginabile, la serie è stata, finalmente, esposta.

Un cerchio che si è chiuso a cinquant’anni esatti dalla fiera di New York. Nemmeno oggi, che quel mezzo secolo è ormai alle nostre spalle e l’esposizione della serie è finalmente passata alla storia, le polemiche si sono del tutto sopite. Più volte la serie è stata invocata come legittima dalla comunità gay statunitense, e la censura definita immeritata ‒ di recente, nel 2015, lo ha fatto un bell’articolo firmato da Laura Stamm e pubblicato dalla Film and Media Studies Graduate Student Organization dell’Università di Pittsburgh.

Si è innescata una competizione tra individui e tra gruppi sociali discriminati che prende troppo spesso la forma di una gara

Il motivo di questa difesa è facilmente intuibile: quell’opera per la comunità gay fu significativa e in qualche misura potrebbe esserlo ancora oggi. Ma elevandola, nella nostra contemporaneità, al grado di opera “progressista” si fa un torto alle altre minoranze, quelle dei detenuti, dei migranti ingiustamente accusati e schedati dalla polizia statunitense ed esposti al pubblico, tanto per cominciare.

Qui intravediamo un problema importante che in questa vicenda viene a galla in tutta la sua pericolosità: nella nostra contemporaneità le minoranze tendono egoisticamente a ignorare i problemi delle altre. Per via dello strapotere della visibilità si è innescata una competizione tra individui e tra gruppi sociali discriminati che prende troppo spesso la forma di una gara, in cui i colpi bassi sono sconsigliati, ma non vietati, perché ciò che conta è solamente far emergere la propria storia, la propria narrazione e il proprio punto di vista. Si tratta di una competizione che a volte sfocia in una corsa forsennata a emergere, a conquistare spazio, visibilità e accettazione; anche a costo di creare a propria volta discriminazioni e perpetuare visioni stereotipiche.

Questo accade perché la visibilità è la nuova moneta sonante che assume sempre più valore nella nostra società. C’è chi la chiama “economia della reputazione”: cioè un sistema in cui a funzionare da moneta di scambio non è solo una valuta come l’euro o il dollaro, ma anche l’esposizione mediatica. Il tema può sembrare bizzarro ma è invece molto sentito: il successo di un libro come Teoria della classe disagiata (minimum fax 2017) di Raffaele Alberto Ventura, che sviscera proprio questi temi, lo dimostra.

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