L'Italia ai tempi del Recovery Plan (II) Dialogo con gli economisti Risponde Vladimiro Giacché su Sinistra in Rete
10 Giugno 2021

Con questa approfondita intervista prosegue la riflessione, inaugurata dal colloquio con Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-italia-ai-tempi-del-recovery-plan), sulla politica economica di risposta alla crisi drammatizzata dalla pandemia Covid. Ritorno delle istituzioni regolative, Recovery Plan, strategia europea di rilancio dell’accumulazione, contraddizioni del green new deal, sono alcuni degli argomenti proposti a Vladimiro Giacché, filosofo di formazione, autore di saggi filosofici e di economia politica, ma anche di ricerche più strettamente di carattere finanziario, in qualità di professionista del settore bancario e del ruolo di presidente del centro di studi economici Centro Europa Ricerche (Cer, 2013-2020). Tra i suoi libri si citano: Titanic Europa (2012), Costituzione italiana contro trattati europei (2015), La fabbrica del falso (terza ed. 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (nuova ed. 2019), Hegel. La dialettica (2020). Ha curato inoltre edizioni degli scritti economici di K. Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin (Economia della rivoluzione, 2017).

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Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?

 

VG: Come ho sottolineato in un testo recente [1], negli ultimi decenni uno dei pilastri ideologici della prassi politica e dell’evoluzione del quadro normativo in Occidente è stato rappresentato dalla filosofia della storia che considerava come un processo ineluttabile e progressivo il ruolo sempre più residuale dello Stato e del settore pubblico. Lo stesso ruolo di «salvatore di ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà di cui si parla nella domanda rappresenta una «acquisizione» della (cosiddetta) crisi finanziaria del 2008 e 2009, allorché soltanto una socializzazione delle perdite di dimensioni mai viste prima su scala mondiale, accompagnata da massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, impedì il collasso del sistema finanziario internazionale e il riproporsi di scenari da anni Trenta.

Questo era già una sconfessione dell’ideologia neoliberale, e infatti gli indugi in proposito vennero meno soltanto dopo i risultati catastrofici del mancato salvataggio di Lehman Brothers, motivato con la necessità che «il mercato» dovesse «pensare a se stesso» (come ebbe a dire l’allora sottosegretario al Tesoro Usa Timothy Geithner). Vi fu poi addirittura una fase, tra fine 2008 e inizio 2009, in cui si parlò si «crisi di legittimazione del capitalismo». Questa fase si chiuse però non appena – tra marzo e giugno 2009 – i mercati finanziari invertirono la fase discendente e si poté pensare di tornare al business as usual. Vi si tornò in un mare di liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali, una crescita sostenuta del debito pubblico (in cui erano state convertite larghe quote del debito privato, secondo i più classici schemi di socializzazione delle perdite), e un debito privato che solo temporaneamente vide un calo, per riprendere vigore nell’espansione drogata dalle banche centrali degli anni successivi.

Lascito della crisi sul piano ideologico fu comunque la convinzione che allo Stato il ruolo di «salvatore di ultima istanza» potesse essere lasciato senza troppi danni per il potere economico. Ipotesi del resto confermata, negli anni seguenti, dalla straordinaria assenza di un’opposizione di massa alle politiche di austerity, non di rado attivamente sostenute dalle stesse banche che avevano appena beneficiato di massicci aiuti di Stato.

Credo che oggi ci troviamo in una fase diversa. Ma preferisco parlare di «ritorno delle istituzioni» che di «ritorno dello Stato». Perché, se è vero che il mito dell’autosufficienza del mercato è venuto meno, non è lo Stato l’istituzione che rappresenta – almeno in Occidente – il principale protagonista di questa fase, quanto quella particolarissima istituzione che è la banca centrale. Formalmente indipendenti (ma in realtà funzionalmente deputate alla necessità di garantire il regolare funzionamento dei flussi di capitale e di impedire shock del sistema, e quindi legate a doppio filo alle grandi banche e dei maggiori operatori finanziari non bancari, money managers ecc.), prive di accountability democratica, dotate di meccanismi decisionali corrispondentemente opachi, le banche centrali hanno ovunque guidato le iniziative economiche di contrasto alla pandemia. In qualche caso questo è successo monetizzando più o meno esplicitamente il debito pubblico (Stati Uniti, Giappone e Regno Unito), e laddove – come nell’Eurozona – l’ortodossia lo impedisce, impedendo comunque che le spinte centrifughe diventassero incontrollabili e sostenendo il sistema bancario al fine di tenere aperti canali di finanziamento dell’economia. Qui abbiamo un primo blocco di problemi: l’analista di Deutsche Bank George Saravelos, nell’aprile 2020, ha paventato che «le banche centrali potrebbero diventare agenti permanenti di un’economia pianificata con il compito di amministrare il costo del capitale e del credito cercando di sottomettere aggressivamente gli shock finanziari», e ritenendo che nel contesto attuale questo in realtà potrebbe avvenire dando vita a «un mondo bipolare di repressione finanziaria, con elevata volatilità dell’economia reale ma volatilità finanziaria molto bassa» [2]. Effettivamente, precisamente questo è avvenuto dallo scoppio della crisi pandemica a oggi: il che, per inciso, ha ulteriormente accentuato la bipolarità economica già insita nei trascorsi decenni di finanziarizzazione [3]. Ma è difficile pensare che la volatilità finanziaria possa restare contenuta all’infinito in un contesto economico di profonda crisi e di grandi squilibri.

Il secondo blocco di problemi riguarda lo Stato: a esso per un verso sono stati attribuiti compiti straordinari (ben più che durante la crisi precedente). D’altra parte, nei paesi occidentali esso è parso in affanno e vulnerato in modo grave dalle politiche neoliberali di erosione nei suoi confronti dei decenni precedenti. Non so se l’Italia possa essere considerata un caso estremo, in ogni caso da noi gli effetti dell’indebolimento dell’amministrazione pubblica causato da anni di mancati investimenti, blocco decennale del turnover e dall’introduzione dello spoil system sono emersi in tutta la loro gravità. Non meno grave l’erosione funzionale, i cui effetti perversi abbiamo pienamente visto in opera durante la pandemia, verso il basso in direzione delle Regioni, e verso l’alto in direzione del confuso altrove rappresentato da un’istituzione sovranazionale quale dall’Unione Europea dall’altro. Ad entrambi i riguardi la crisi pandemica ci ha offerto ampie evidenze, se mai ne avessimo avuto bisogno, della disfunzionalità dello svuotamento dello Stato nazionale. Tralasciando per carità di patria di commentare le performance delle Regioni in tale contesto, va detto che la prova che ha dato di sé l’Unione Europea in questo frangente è stato molto al di sotto delle peggiori aspettative: totale assenza di «solidarietà», intervento efficace da parte della banca centrale non prima che i mercati finanziari del centro Europa fossero a repentaglio (esemplare la sequenza delle due riunioni della Bce il 12 e il 18 marzo 2020), organizzazione di un Recovery Plan (poi orwellianamente ribattezzato Next Generation EU) così tempestiva che la sua partenza non è ancora avvenuta alla data attuale, organizzazione della campagna vaccinale all’insegna non soltanto del sacro rispetto del diritto di proprietà, ma della totale subordinazione negoziale al Big Pharma. Davvero non è chiaro cosa avrebbe potuto andare peggio…

In ogni caso, al di là di un commento minuto dei singoli aspetti di questa debacle, credo che soltanto un rovesciamento deciso dei trend in opera negli ultimi decenni potrà restituire efficacia agli Stati. E quindi: investimenti in digitalizzazione e formazione, irrobustimento dei ruoli, ridefinizione del sistema delle carriere interne e abolizione dello spoil system, ma soprattutto ricentralizzazione di funzioni essenziali (a cominciare da quelle relative ala Sanità) e recupero di prerogative attribuite all’Unione Europea in contrasto col disposto costituzionale.

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