Umberto Cicconi. In viaggio verso Pietralata
4 Gennaio 2023

Questa intervista è necessaria. Umberto Cicconi è un fotografo poco conosciuto, sebbene con il suo lavoro abbia dato un contributo importante e fondamentale al fotogiornalismo italiano. Il suo nome, presto o tardi, si finisce per incontrarlo quando si parla di Bettino Craxi, perché, per un puro caso della vita, è stato il suo fotografo personale. Dunque, una intervista necessaria dal momento che non esiste in Italia una persona che abbia fotografato la politica di un tempo e un uomo politico di quel tempo, dalla sua ascesa fino alla morte. Una morte, come è noto, che ha raggiunto Bettino Craxi ad Hammamet, in Tunisia, dove ha trascorso gli ultimi sei anni della sua vita. Umberto Cicconi, al di là del normale rapporto di fiducia e poi amicizia, con il suo lavoro di fotografo, ha costruito un lungo reportage fatto non solo di immagini, ma anche di parole e sono state proprio queste a portarmi da lui. Il suo libro intitolato “Bettino Craxi. I suoi ultimi vent’anni”, edito da Diarkos, mi ha permesso di contattarlo e chiedergli un’intervista.

Uomo semplice, ma energico, romano, di quelli di una volta, con una visione chiara della fotografia, della politica, del mondo, un uomo di grande intelligenza e di grande esperienza. In un freddo pomeriggio di dicembre, mi ha dato appuntamento al centro di Roma, in un posto molto raffinato, ma appena arrivato, Umberto Cicconi mi ha fatto salire sulla sua macchina e mi ha portato a Pietralata, cioè dove è nato e dove c’è ancora parte della sua vita evidentemente. È un luogo che oggi corrisponde poco a quello della fine degli anni ’50 del secolo scorso, sebbene ne conservi lo spirito. Per comprendere il contesto nel quale è nato e dove Umberto Cicconi ha vissuto la sua infanzia, rimando al lavoro fotografico di Rodrigo Pais, non è l’unico ad aver affrontato questo tema a livello fotografico all’epoca, e alla recente mostra “Tracce di Pier Paolo Pasolini nel fondo Rodrigo Pais”, in modo particolare al capitolo “Viaggio per Roma e dintorni”. La galleria composta da sole sei immagini, permette di farsi un’idea di cosa significasse crescere in quegli anni a Roma, di cosa Umberto Cicconi intenda quando parla della “strada”. Nell’intervista viene poi citato il film “Il tetto” di Vittorio De Sica, scritto da Cesare Zavattini. Chi volesse approfondire la genesi e lo sviluppo di quella sceneggiatura, può leggerla nel primo dei due volumi del diario di Zavattini, edito da “Nave di Teseo”.

Io parlo, tanto tu ricordi tutto, no?” Chiaramente no, la registrazione, in parte in auto e in parte in un bar di Pietralata, è durata tre ore. Devo dire che è stata una esperienza singolare e divertente. Normalmente si sceglie un posto tranquillo, lontano dai rumori, in questo caso il sottofondo era il traffico chiassoso, molto chiassoso, della città di Roma. L’intervista trascritta è lunga, per questa ragione abbiamo preferito dividerla in tre parti e la prima è “in movimento”. Abbiamo anche preferito lasciare il tono discorsivo, pertanto il testo è solo adattato per facilitare la lettura.


Quando è cominciata la tua personale storia della fotografia?

È iniziata casualmente tanti, tanti, tanti anni fa, casualmente. In quel periodo abitavo a Ostia. I miei genitori decisero di trasferirsi a Ostia nel ’69-70 per via di mia sorella che aveva problemi ai polmoni e necessitava di aria di mare. Dunque, verso i 14 anni, 15 anni, casualmente al pontile c’era una fiera di macchine fotografiche russe, perché a Ostia c’erano i russi. Vennero nel ’70. Lì c’erano tutte queste attrezzature sovietiche e c’era una macchina fotografica Zenit, ricordo pesantissima. C’era una mia amica che mi dice “ti piace fare le fotografie?” Rispondo boh, non lo so. Insomma, avevo 70.000 lire in tasca. Quella macchina mi costò 50.000 lire, me lo ricordo come se fosse ieri, la Zenit. Il venditore mi disse che era senza obiettivo e me ne regalò uno. Era un mercato, si mercanteggia, così con 50.000 lire mi portai via l’obiettivo classico e un 35 mm, un obiettivo stupendo, favoloso, fino a quando non conobbi il 24 mm che montava la Leica, perché subito dopo passo alla Leica. Insomma, comincio a fare degli scatti, giro per Ostia, ma soprattutto fotografavo la mia amica, ritratti, figura intera. Dopo due giorni, avevo questi due rulli in bianco e nero e li porto da un fotografo professionista che aveva la camera oscura a Ostia, al primo cavalcavia. Li sviluppa e le foto sono bellissime, bellissime perché il russo mi aveva spiegato il funzionamento dell’esposimetro.
Di lì a poco tempo a Roma stanno girando un film e una sera incontro casualmente, in realtà non proprio casualmente, perché un amico mio era fidanzato con una donna che era la sorella della fotografa di scena. Dicevo, incontro allo Zodiaco questa fotografa americana con le sue Nikon F e F2, mentre io ero passato a Leica, prestata da un signore di Ostia, d’altra parte mi conoscevano tutti e tutti conoscevano tutti, ognuno aiutava l’altro, ci si aiutava. Quella sera tiro fuori questa Leica per fare sempre fotografie a questa mia amica, a questa ragazza che mi accompagnava in giro. Carico la Leica in maniera così veloce, la Leica caricarla era difficilissima, questa mi vede, rimane stupita, prendiamo subito confidenza e ci fidanziamo tutto il tempo delle riprese a Roma. Ci piacciamo tutti e due, si chiamava Melissa, mi porta sul set, era la prima volta per me, un’esperienza bellissima. Durante un fine settimana di riposo, lei mi dà una Nikon, mi piace la Nikon, è una bella macchina, ma Leica è Leica, e mi dice di fare le fotografie insieme. Fotografiamo qualsiasi cosa, la stessa cosa, le stesse cose, lo stesso scatto che faceva lei, lo facevo io e viceversa. Torniamo a casa con quattro rulli ciascuno, rulli di tante cose: il Quirinale, i palazzi istituzionali, il cane che attraversa la strada da solo, quella che dà un bacio a quell’altro, poi a quei tempi c’erano i figli dei fiori, c’era ancora questo post ’68, c’era l’amore libero, c’erano le lesbiche, le manifestazioni dei transessuali, degli ermafroditi, abbiamo fotografato di tutto e di più. A casa avevo allestito una piccola camera oscura e una sera, tornati, lei decise di sviluppare subito qualcosa, sia di mio che di suo. Guardando le foto lei mi dice: “tu hai il senso dell’inquadratura”. In effetti la fotografia è una lettura, ci deve essere un argomento, qualcosa da leggere per poi poterlo e saperlo raccontare. Scattare fotografie mi prende sempre di più.

Quando capisci che la tua strada è la fotografia?

Io sono stato sempre un socialista, in quel periodo ero addirittura vicesegretario della sezione del PSI di Ostia di piazza Gasparri. Una mattina, nel ’76-77, mi alzo, vado a Roma e non torno più, non torno più a Ostia. Facevo il fattorino in questa organizzazione che si chiamava Alleanza Nazionale dei Contadini, dove c’erano comunisti e socialisti, mio padre pur di levarmi di mezzo la strada mi mandò alla fine a lavorare lì. Mi trovavo all’alleanza contadini a viale Aventino. Vado all’ARCI nazionale che stava in via Francesco Carrara, quella tarda mattinata, ormai mi portavo sempre appresso questa macchina Leica; Antonio Manca, dell’ARCI, un socialista, mi chiama per andare al residence Ripetta a un convegno a fare qualche fotografia. Era un passaparola, mi stavano stimolando, capisci? Io non sapevo questo. Mi sentivo gratificato. Con questo 24mm, 1.2 di fuoco di luce, stupendo, ho fatto il convegno. Allora. C’erano un paio di comunisti, ricordo che c’era anche Chicco Testa che quel giorno mi pare volesse diventare o doveva diventare presidente dell’ARCI. Ricordo che dissero che non sarebbe venuto niente, chissà che fotografie stavo facendo e che alla fine bisognava chiamare un fotografo professionista; foto in bianco e nero. Vado in laboratorio, da un mio amico, lì a piazza Verdi. Certe fotografie, una roba bellissima. Belle. Belle. Belle. Ce l’ho ancora. Belle. Belle. Quella sera stessa c’era la presentazione di un film, un’anteprima, mi ricordo che il film era francese. C’erano tutti, c’era anche De Michelis, c’erano quelli della Rai, c’erano quelli di Cinecittà, mi ricordo che c’era Zavattini. Cesare Zavattini con cui parlo e gli dico: sai, mi chiamo Umberto Cicconi e tu hai scritto “Il tetto” e lui si ricordava tutto per filo e per segno.

“Il tetto” è una storia che ti riguarda?

Si, è la storia di mio padre e di mia madre a Pietralata, film di Vittoria De Sica. Christian De Sica e Manuel De Sica, ogni volta che ci vedevamo per strada facevano: “ogni volta che veniva papà a casa parlava sempre di tuo padre, non ci stava mai a casa e quando tornava parlava di tuo padre”. Il film fu censurato, De Sica voleva mio padre e mia madre, personaggi veri e mio padre disse di no. L’ignoranza. La gelosia, vai a capire, così hanno preso due attori, raccomandati tra virgolette. È l’ultimo o uno degli ultimi film neorealisti italiani. De Sica è stato un grande a fare questi film.

Dunque, tu vai alla prima di questo film.

Esattamente e incomincio a fare foto. Foto, foto, foto. C’era Giuseppe Ferrara, sempre socialista, regista che ha fatto film come “Sasso in Bocca”, “Faccia di spia”, “Il caso Moro” che mi fa: dove vai a casa a Ostia, chiama tuo padre e tua madre e gli dici che dormi a casa con noi. Era a Trastevere, via Luciano Manara. Pensa, sono rimasto lì quella sera e non sono più ritornato a casa.

Che ha detto tuo padre?

Niente, era pure contento alla fine, l’importante è che non sparivo. D’altra parte, ero sempre presente su Ostia a livello politico. Comunque, rimango a Roma e comincia la mia carriera di fotoreporter.
Nel ’77 una delegazione di questa Alleanza Nazionale dei Contadini va a Torino a questo congresso socialista, io faccio parte di questa delegazione come demartiniano, perché Peppino Avolio era un demartiniano, perché Peppino Avolio diventa presidente dell’Alleanza Nazionale dei Contadini.

Nel ‘77 Bettino Craxi era segretario.

Lui diventa segretario nel ’76. Io nel 1976 stavo al Midas perché portavo delle buste ad Avolio, a De Martino, eccetera, come Alleanza Nazione dei Contadini con i comunicati che già si facevano contro questo segretario.

Contro Craxi?

Eh sì, perché mica lo volevano Craxi, al Midas [che diventasse segretario del PSI N.d.R]. È stato appoggiato da Giacomo Mancini con l’accordo che lo avrebbe fatto protempore, per poi lasciare la segreteria a Enrico Manca.

Insomma, tu vai a Torino nel ’77.

Vado a Torino, scendo dalla zona filo demartiniana e vado sotto al palco e mi vedo di faccia, Bettino Craxi. Incomincio a fare TAC, TAC, belle foto, TAC, TAC. C’erano degli sguardi tra me e lui, degli sguardi. Io non lo vedevo così arrogante e voglio dirti questo. Attraverso l’obiettivo, io capivo qual era il tuo sentimento. Non capivo, sentivo qualcosa. A occhio nudo era già diverso, ero più freddo, se vuoi. Attraverso l’obiettivo era come se io entrassi e capissi. Si chiama sentimento, si chiama amore per quello che stai facendo, si chiama voglia di andare, di arrivare, di essere.

Fai queste foto a Bettino.

E finisce lì il discorso. Non si potevano vedere subito le foto all’epoca e io non ero organizzato ancora tanto bene, però sapevo come farlo, perché avevo uno stipendio. Con lo stipendio che prendevo, 125.000 lire al mese, nel ‘77 era una cifra, mi autofinanziavo le pellicole, il laboratorio fotografico, eccetera, tutto da solo e poi c’era anche l’avanzo per l’affitto di casa a Roma, la spesa, le cene quasi tutte le sere con la mia amica, le amiche che conoscevo. Con 10.000 lire, a quei tempi, ci mangiavi per quattro giorni a momenti. Ai ristorantini dove andavo io a Trastevere, mangiavo con 2500 lire.
Tutto questo io l’ho visto, quello che ti sto dicendo, l’ho visto fotograficamente. Perché io tutto questo che ti sto dicendo l’ho fotografato poi alla fine, ogni posto, qualsiasi cosa, qualsiasi posto dove io andavo lo fotografavo. All’improvviso c’è un comitato centrale a Roma al palazzo dei congressi, sempre in quel periodo e faccio delle foto stupende. Lui aveva questa segretaria che io ormai conoscevo molto bene. Io sono stato sempre un socialista, giravo botteghe oscure e giravo PSI, poi piano piano ho cominciato ad andare dentro alla Democrazia Cristiana, perché come fattorino mi facevo tutti i partiti, andavo a portare i comunicati ai diversi segretari di partito. I portieri, tutti quanti mi conoscevano. Alle otto stavo già in piedi con il Ciao a girare per tutta Roma.

Praticamente porti queste foto alla segretaria di Craxi.

Sì, perché lei mi dice, “mi fai vedere quelle foto che ha fatto?” Io stampo tre fotografie e gliele porto a via del Corso. Eravamo al quinto piano, di fronte alla stanza di Bettino Craxi, lei vede le foto, si alza e mi dice di aspettare, torna e mi dice di entrare nella stanza di Craxi. Allora busso e lui neanche dice avanti, niente, allora apro ed entro. Stava seduto con gli occhiali sopra la testa e continuava a scrivere senza guardarmi. Dico: “scusa, Daniela mi ha detto di venire qui e portarti queste foto” e lui non risponde, una volta, due volte, la terza volta ho aperto la porta e me ne sono andato, con tutte le fotografie. Scendo giù in portineria e il portiere mi dice di tornare su. Torno di sopra e mi rivedo la stessa scena e io gli dico, io rifaccio come prima, me ne rivado. Ero tremendo. A quel punto mi guarda e si mette a ridere. Lì capisco che gli piaccio a livello caratteriale. Lì nasce l’idillio. Io però volevo fare sempre il freelance. Mi è sempre piaciuto essere libero. E infatti, con l’Alleanza Nazionale dei Contadini, quando ci fu questo incontro con Bettino, non sapevano cosa fare, se licenziarmi. Invece, i comunisti che erano tutti amici miei, hanno detto a Peppino Avolio, noi gli diamo lo stipendio, quando farà i soldi, glielo togliamo e gli paghiamo i contributi, purché si faccia vedere ogni tanto. Pensa come sono stati bravi loro. Praticamente ho fatto il fattorino un anno e mezzo, poi ho dato tutto a Romana Recapiti, li pagavo per girare per me e io andavo a fare le foto. Tentavo di pubblicare. In quegli anni c’erano Epoca, L’Europeo e Panorama.

Riesci a parlare con Bettino Craxi?

Parlo con Bettino e mi dice di fargli 100 copie di quella foto. Io facevo finta di non capire quale foto, gliene avevo portate tre, anche se avevo capito quale voleva lui. Mi guarda e dice “100 ho detto”. Si, ma quale foto? Questa è un’intervista in movimento, come facevo io le foto, in movimento.

Federico Emmi

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