Intervista: Storie Maledette Del Calcio - Bibliocalcio
6 Settembre 2023

Combinando la bravura del cronista alla sensibilità del giornalista appassionato Roberto Maida ripercorre e analizza l’esistenza di calciatori interrottasi improvvisamente per cause più o meno note, coinvolgendo il lettore per mezzo di una prosa tanto attenta ai particolari quanto fine nell’espressione di sentimenti forti e spontanei. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’interesse per questo tipo di storie e quando hai deciso di dedicargli un libro?

Io ho sempre avuto una passione per le storie umane degli atleti, in più mi ha sempre affascinato il mondo del Noir, quindi ho unito le due cose, sia nel cinema che nelle letture. Sin da bambino leggo e guardo qualcosa legato al Noir, quindi è stato quello il doppio filo conduttore: l’umanità dei vip, intesa non come gossip, ma proprio come fragilità umana ed il noir.

Come hai organizzato il lavoro di ricerca, dato che per profondità di argomenti e dati sembra essere frutto di un lavoro di anni?

Il lavoro di ricerca nasca intanto da alcune testimonianze che ho raccolto ancora prima di scrivere il libro, facendo il giornalista sportivo alcuni contatti li avevo accumulati nel corso degli anni, penso ad esempio alla famiglia Taccola o a Attilio Romero, che è il presidente del Torino che fatalmente uccise e per puro caso da ragazzo Gigi Meroni con la sua automobile. Questo è stato sicuramente un punto di partenza, poi lo studio delle vicende è secondo me preliminare e fondamentale, uno deve prima documentarsi sui fatti, come sono stati raccontati e come sono emersi e poi c’è stata una ricerca, lavorando per un quotidiano sportivo, il Corriere dello Sport, ho attinto anche agli articoli dei giornali dell’epoca ed ho parlato con giudici e magistrati. E’ stato un lavoro abbastanza approfondito come dici tu e questo sicuramente è un complimento che mi fai.

Riesci a trovare un filo conduttore che lega le varie storie pur essendo diverse tra loro?

Il filo conduttore secondo me è proprio la fragilità. La fragilità che contraddistingue tutti i personaggi di cui io racconto le vicende, persone che, magari in campo ci sembrano invincibili o che ci sembrano speciali, superiori e migliori della media, in realtà sono esseri umani come noi e possono finire travolti da vicende che non hanno né censo né status e che quindi riguardano un po’ tutti a seconda di come gira la famosa ruota della fortuna o della sfortuna.

Come spiegheresti l’omertà che ha contraddistinto buone parte delle storie da te raccontate?

E’ abbastanza delicata. L’omertà è un tema che ha a che fare con la paura, con la mediocrità, quindi non c’è per forza dolo nella mancanza di approfondimento su certe vicende. Io credo che tutto sia determinato dalla paura di perdere il piccolo privilegio dell’appartenenza ad un certo mondo; non riguarda solo il calcio, questo sistema omertoso è un po’ tipico di tutto quello che riguarda il mondo del lavoro in generale. Il calcio, con interessi economici molto più alti della media, non fa eccezione.

Omertà che vale anche per il contesto del doping, dove sembra che l’illecito sia sempre un passo avanti ai controlli: abbiamo in tal senso una cultura negativa e disonesta in Italia a tal proposito?

Io non mi sostituisco nel libro ad un giudice o ad un magistrato, non mi permetto neanche di collegare nessun caso al doping. La cultura dell’escamotage c’è nello sport, non solo in Italia e c’è sicuramente una grandissima preparazione in termini di farmacologia, nello sport professionistico in generale. Pensa, per esempio, agli sport americani, nel football o nel baseball, sono assolutamente pratiche diffuse quelle farmacologiche. Il problema fondamentale è etico, bisogna mettersi d’accordo su cosa è doping; doping non è soltanto una sostanza proibita, ma doping è anche magari, ed io la penso così, forzare il recupero di un atleta imbottendolo di farmaci che, di solito, si danno a persone malate. Se tu hai un problema ad un’articolazione o ad una caviglia e fai iniezioni di antidolorifici in continuazione per accelerare il recupero non è doping in senso stretto e regolamentare, ma dal punto di vista etico stai forzando la macchina del corpo, che, come scrivo in un capitolo, non è perfetta.

Ti chiedo se c’è una storia alla quale sei particolarmente legato e che stai magari ancora seguendo con passione giornalistica.

Essendo cresciuto in una famiglia di romanisti, tifosi della Roma, sono andato a vedere la mia prima partita allo stadio nel 1982 e c’è anche una parte del libro dedicata a questa esperienza, con la Roma che vince contro il Verona con un gol di Agostino Di Bartolomei, E’ evidente, quindi, per esperienza diretta la storia di Di Bartolomei ed il suo suicido, sul quale si è detto molto e spesso a sproposito ed io nel libro credo di dare un quadro forse più obbiettivo e completo di quello che di solito si dice sulla sua vita e sulla sua morte, purtroppo. Questa storia di Agostino Di Bartolomei, forse, è quella che mi ha segnato di più dal punto di vista personale, è stato il capitano della prima squadra che ho visto giocare allo stadio ed ha segnato anche il gol decisivo, quindi ha un valore enorme. Per la stessa ragione di dico Giuliano Taccola, che è il centravanti dell’adolescenza di mio padre. Mio padre, che è stato anche lui un grande giornalista sportivo, anzi, lui è stato un grande giornalista sportivo, molto più di te, lui dice di aver pianto due volte nella sua adolescenza: quando è morto Kennedy e quando è morto Taccola. Lo dice senza nessuna ironia, adesso io ci sorrido, ma, ovviamente, questo rende l’idea di quanto poi ci affezioniamo ai nostri idoli, soprattutto quando siamo giovani e ne subiamo in maniera viscerale quasi la perdita

Credi che i protagonisti morti per malattia siano più simbolici come persone normali sfortunate o come icone celebrate dal mondo calcistico? Secondo me un po’ tutte e due le cose. A me colpisce, ripeto torniamo al discorso di partenza, quanto la caducità dell’umano sia trasversale e non abbia nessun riguardo per l’appartenenza ad un certo censo o ad un certo status. E’ però evidente che l’impatto mediatico ed anche emotivo che possono avere le morti, anche in giovane età, di atleti che siamo abituati a vedere pimpanti e robusti sul campo abbia più forza e le due cose sono legate, perché noi crediamo che certi personaggi siano invincibili. Uscendo dal calcio, ricordo che quando morì Ayrton Senna ad Imola, tutti rimanemmo sgomenti, non soltanto per la tragedia in sé, ma perché Ayrton Senna per tutti noi era una sorta di eroe immortale, ma invece quando capita che la pallina gira dalla parte sbagliata anche per colpe di altri, come nel caso di Senna, non c’è difesa, non c’è appunto appartenenza di classe che ti possa salvare.

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