In Dedollarizzazione – Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos, 2023), Giacomo Gabellini ripercorre le vicende che hanno portato all’affermarsi del dollaro come moneta universale e poi ad intaccare quello stesso primato.
La questione della dedollarizzazione, ovvero della perdita di potere del dollaro come valuta di scambio internazionale, e la conseguente erosione della posizione di potenza egemone detenuta precedentemente dagli Stati Uniti, rappresenta un importante argomento di dibattito nella politica internazionale del nostro secolo, come dimostrano numerosi discorsi e dichiarazioni di leader politici di spicco di tutto il mondo. In Dedollarizzazione – Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos, 2023), Giacomo Gabellini ripercorre le vicende che hanno portato all’affermarsi del dollaro come moneta universale e poi ad intaccare quello stesso primato, in un susseguirsi di eventi che potrebbe presto portare ad uno stravolgimento degli equilibri mondiali.
Arricchito da una prefazione di Jacques Sapir e da un’introduzione di Flavio Piero Cuniberto, il volume di Gabellini affronta il processo della dedollarizzazione sotto vari aspetti, dimostrando come gli artefici della propria stessa rovina siano stati proprio gli Stati Uniti, spinti da una cieca voglia di impersonare la potenza egemone su scala globale, ma fagocitati dalla loro stessa ambizione. Seguendo la propria ambizione di diventare un Paese iper-tecnologizzato ed iper-finanziarizzato, esportatore di beni e servizi dal forte contenuto innovativo, Washington ha inizialmente goduto di un importante vantaggio grazie all’esorbitante privilegio del dollaro, per dirla con Valéry Giscard d’Estaing, e al crollo dell’Unione Sovietica, che sembrava preconizzare il trionfo definitivo del capitalismo a guida statunitense, o persino la “fine della storia”, come aveva erroneamente profetizzato Francis Fukuyama.
Negli anni ‘90, lo spettro del comunismo continuava ad aggirarsi per il mondo rappresentato soprattutto dalla Repubblica Popolare Cinese, ma non spaventava più nessuno, ancor meno dopo che Pechino era entrata a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Con questa mossa, Washington “puntava alla colonizzazione economica dell’ex Celeste impero in vista del suo incasellamento nello schema di divisione internazionale del lavoro concepito da Washington, che assegnava all’Asia orientale il ruolo di ‘fabbrica del mondo’” (p. 36). In effetti, mentre riservavano per sé il monopolio della tecnologia, gli Stati Uniti avevano deciso di delegare ad altri la produzione di beni industriali, ma sarà proprio questa mossa poco lungimirante a preparare il terreno per la loro rovina. Infatti, “la rilocalizzazione delle produzioni tradizionali dagli Stati Uniti alla Repubblica popolare cinese avviata negli anni Ottanta e accelerata con l’integrazione della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio si traduceva in un colossale deficit di bilancia commerciale accompagnato da un vero e proprio cataclisma occupazionale” (p. 42).
Nonostante alcuni analisti statunitensi avessero anticipato quelli che sarebbero stati gli esiti di questa politica suicida, le amministrazioni repubblicane e democratiche che si sono succedute non hanno modificato l’approccio, preparando il terreno per il primo grande colpo assestato al capitalismo statunitense, quello della crisi finanziaria del 2008. Ignorando tutti i segnali, gli Stati Uniti hanno proseguito lungo la rotta del progetto egemonico che perseguono sin dal 1945, trasformando il dollaro in una vera e propria arma alternativa alle invasioni militari, riservate solamente a Paesi deboli e privi di capacità di risposta. Queste due armi sono state utilizzate contro tutti i Paesi che si opponevano al progetto egemonico statunitense, con l’obiettivo di preservare “un elevato livello di conflittualità internazionale [che] permette sia di accrescere l’export di armi di cui gli Usa sono primi produttori al mondo, sia di consolidare l’immagine di “porto sicuro” di cui gode storicamente il dollaro” (p. 65).
L’utilizzo della forza militare in modo indiscriminato contro Paesi terzi, l’uso del dollaro come arma a suon di sanzioni e minacce di disconnessione dal sistema SWIFT, nonché il mancato rispetto di regole elaborate dagli stessi statunitensi su questioni come i paradisi fiscali o l’interventismo dello Stato per regolare l’economia (vedi capitolo sul quantitative easing) non hanno fatto altro che intaccare l’immagine degli Stati Uniti agli occhi dell’opinione pubblica globale, spingendo sempre più governi a pensare all’eventualità di mettere in piedi un sistema di relazioni economiche e diplomatiche alternativo a quello costruito dopo la seconda guerra mondiale, principalmente su iniziativa statunitense. Allo stesso tempo, l’emergere di una potenza economica in grado di rivaleggiare con Washington, ovvero la Cina, ha posto le basi per la trasformazione di questi progetti, già ventilati da tempo, in realtà.
Nel corso degli anni, la leadership cinese ha dimostrato di saper approfittare dei vantaggi dell’economia di mercato e del sistema commerciale che gli Stati Uniti avevano costruito per garantire i propri interessi, al punto da trasformare la Cina nella prima economia mondiale e nel motore di una nuova globalizzazione alternativa a quella occidentale. Già nel 2011, l’allora presidente cinese Hu Jintao aveva dichiarato che “l’attuale sistema monetario internazionale dominato dal dollaro è un prodotto del passato” (p. 102). Sarebbe poi stato il suo successore Xi Jinping a dare vita alle organizzazioni che oggi rappresentano la principale alternativa all’ordine mondiale unipolare a guida statunitense, come i BRICS e l’organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
La politica cinese ha permesso a Pechino di acquistare progressivamente credito presso i governi dei Paesi di Asia, Africa e America Latina, a fronte di un corrispondente arretramento delle posizioni statunitensi e occidentali in generale, spostando il baricentro economico mondiale sempre più verso l’Asia orientale. In pratica, la Cina ha saputo sfruttare i vantaggi del proprio sistema economico nazionale e i punti deboli di quello internazionale costruito dagli Stati Uniti per strappare a questi ultimi il primato economico planetario: “Grazie a questo sistema, capace di combinare i vantaggi della pianificazione strategica centralizzata a quelli dell’economia di mercato in un contesto di rigoroso controllo pubblico dell’infrastruttura monetaria, la Cina ha conseguito un processo di trasformazione senza precedenti” e “si è gradualmente affermata come prima forza sia industriale che commerciale del pianeta” (pp. 119-120).
Gli ultimi sviluppi internazionali hanno poi portato al continuo riavvicinamento tra Cina e Russia, con al seguito tutti quei Paesi che non accettano il ruolo egemonico degli Stati Uniti. La Russia, oltretutto, condivide con la Cina un’economia basata prevalentemente su risorse tangibili, come le materie prime, motivo per il quale le sanzioni economiche imposte dall’Occidente contro Mosca si sono rivelate del tutto fallimentari. L’autore ci ricorda come gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo, eccessivamente entusiasti per tecnologia e finanza, abbiano perso la bussola dell’economia reale, dimostrando di trovarsi in una posizione di debolezza nei confronti dei loro principali rivali, continuando oltretutto ad insistere sullo strumento delle sanzioni, che aveva già provato la propria inefficacia contro Paesi economicamente meno solidi della Russia: “Una prospettiva tanto distorta ci ha lasciato impreparati per un mondo in cui i beni tangibili rimangono di vitale importanza” (p. 159).
La crisi ucraina, dunque, non ha rappresentato altro se non una miccia che ha posto sotto gli occhi di tutti il confronto del nostro secolo: non quello tra “democrazie” e “autocrazie” sbandierato dalla stampa occidentale, ma quello tra unipolarismo e multipolarismo, con corrispondente fine della globalizzazione di stampo statunitense. In tutto questo, l’Europa si è lasciata imbrigliare in un malcelato vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti, che l’ha portata persino ad andare contro i propri interessi pur di compiacere Washington, mentre nel resto del mondo oramai si guarda all’Occidente come ad un impero in decadenza dal quale è meglio stare alla larga. Persino Paesi storicamente vicini agli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita, hanno deciso di cambiare rotta, come dimostra il recente ingresso di Riyadh nei BRICS, effettivo a partire dal 2024. La convergenza tra tutti questi fenomeni sta portando al lento ma inesorabile declino del dollaro, a fronte di un nuovo sistema che potrebbe basarsi su più valute e su nuove organizzazioni multilaterali come la New Development Bank.
In sostanza, la globalizzazione, che “ha assicurato enormi benefici di breve e medio periodo agli Stati Uniti e all’Europa occidentale”, ha anche “prodotto l’effetto collaterale di gettare le basi per la resurrezione della Russia e la trasformazione della Cina in una grande potenza economica, finanziaria, politica, militare e perfino culturale. Di fatto, la Repubblica popolare e altri Paesi in via di sviluppo hanno forgiato le proprie economie sfruttando le caratteristiche del sistema dollarocentrico” (pp. 300-301). Ora spetta agli Stati Uniti la decisione finale sul futuro prossimo del pianeta: andare allo scontro frontale con Russia e Cina pur di cercare di mantenere la propria posizione privilegiata, con il rischio di provocare danni inenarrabili all’intera umanità, oppure accettare il nuovo sistema globale in cui poter giocare, per dirla con Noam Chomsky, un ruolo di “brillante secondo”.
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