Il giornalista e scrittore ha aggiornato il suo libro “Una lunga penna nera”: «La Cuneense fu straordinaria e il ricordo del tenente Piero Menada è ancora vivo. Le guerre attuali? In Russia preoccupa un’eventuale trattativa con Putin, perché in quel caso la pace sarebbe adattata alle sue condizioni»
Fondati a Napoli 152 anni fa, gli alpini sono stati raccontati più volte da Alfio Caruso, giornalista e scrittore. Che ora in “Una lunga penna nera” rievoca una storia di gloria e sofferenze, dalla prima medaglia d’oro di Pietro Cella all’ultima di Andrea Adorno.
Com’è nata l’idea?
«Qualche anno fa con l’editrice Piemme, ora abbiamo ripetuto l’operazione con Diarkos aggiornando la storia degli alpini».
Non è il suo primo libro sul tema…
«Ne avevo già parlato in “Tutti i vivi all’assalto”. Si tratta del nostro corpo militare più amato e frequentandoli ormai da 25 anni ho imparato che non tradiscono mai, in pace come in guerra. Il cappello degli alpini lo vediamo sempre spuntare».
Pagando spesso un prezzo alto.
«Sempre, già nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. Ma anche nella battaglia di Adua durante la guerra di Abissinia. Li abbiamo schierati nelle situazioni più impensate. Come nel caso della ritirata dall’Unione Sovietica oltre il Don oppure durante le sanguinose campagne di El Kantara o El Alamein, tutte disfatte frutto di idee strategiche alquanto singolari».
Esiste un legame speciale con la gente.
«Gli alpini sono tali per sempre. E gli italiani vogliono bene agli alpini, al di là di quanto è accaduto recentemente in certe adunate, quando sono emerse alcune voci di maschilismo e cameratismo. Equivoci che spero non si ripetano, ma al di là di questo il senso di appartenenza è forte».
Come descriverebbe un alpino?
«Vi racconto un episodio che mi ha colpito. Nel 1978 ero nell’ufficio di Egisto Corradi al Giornale – di cui mi vanto di essere stato, nel ’74, il più giovane tra i fondatori – dove con grande emozione incontrammo Luciano Zani, una medaglia d’oro vivente, uno degli uomini che resistettero agli scontri con i sovietici a Nikolaevka al grido appunto di “tutti i vivi all’assalto!”. Corradi a sua volta era stato tenente della Julia. Zani era un commercialista con barbetta bianca, capelli a spazzola e pipa, dallo sguardo profondo. Corradi ricordò le tante medaglie. E Zani, per schermirsi, commentò “Che s’ha da fa’ pe’ campa’… ”».
Un ruolo che è stato attivo in guerra e in pace.
«Gli alpini sono ancora presenti in ogni soccorso per i disastri naturali, dai terremoti alle inondazioni, affiancano il Servizio civile. D’altronde è così da sempre, penso al terremoto del Friuli nel 1976. Quando c’è bisogno, gli alpini intervengono per aiutare le popolazioni».
E sono interventi che lasciano un’eredità.
«Trent’anni fa costruirono l’Asilo del Sorriso a Rossoch in Russia, per ricordare il Comando del Corpo d’armata alpino che lì aveva la sede nel 1942 con le divisioni Cuneense, Julia e Tridentina. E recentemente proprio a Livenka (già Nikolaevka) è stato costruito il Ponte per l’Amicizia, in omaggio alla Colonna tridentina. Nel 2004 invece ricordo le azioni in soccorso alla popolazione di Beslan in Ossezia dopo la strage di bambini compiuta dai separatisti ceceni».
Nella memoria collettiva resiste l’immagine della ritirata dalla Russia con gli scarponi inadatti al gelo.
«Fu un’anabasi al contrario. Le unità degli alpini secondo gli accordi dovevano presidiare le montagne del Caucaso, invece finirono nella steppa del Don dove subirono 26 sfondamenti e fecero della ritirata una tragica avanzata in territorio nemico, con 40 gradi sottozero e i resti della Tridentina a combattere fino all’ultimo: “Tridentina, avanti!”, l’urlo del generale Reverberi, rimasto famoso. Rimasero in 15mila. I sopravvissuti, compresi gli ultimi militari del serpentone che erano senza armi, si unirono alla battaglia sapendo che altrimenti non sarebbero mai usciti dalla sacca».
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