Sulle caratteristiche del sistema cinese - Sbilanciamoci.org
18 Novembre 2024

Esce ora, postumo, il libro di Alberto Gabriele, economista scomparso l’estate scorsa, nel quale analizza lo sviluppo cinese negli ultimi vent’anni. Una presentazione il 22 novembre all’Orientale di Napoli e il 25 novembre alla facoltà di economia de La Sapienza di Roma.

L’Economia cinese contemporanea: imprese, industria e innovazione da Deng a Xi”, pubblicata da Diarkos edizioni è il testamento intellettuale di Alberto Gabriele. Economista, scomparso prematuramente lo scorso inverno, Alberto ha analizzato lo sviluppo cinese per oltre vent’anni. Questo testo, che esce postumo anche grazie alla cura di Edoardo Bellando, offre a un pubblico italiano le analisi contenute nel volume “Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China”, pubblicato da Springer, e in altri lavori, aggiornandole. 

Sul modello economico cinese Alberto Gabriele ha poi scritto con l’economista brasiliano Elias Jabbour “Socialist Economic Development in the 21st Century: A Century after the Bolshevik Revolution” (Routledge-Giappichelli), pubblicato in Brasile – con notevole successo – col titolo “China: o socialismo do século XXI”. L’ultima volta che ho incontrato Alberto Gabriele era appena tornato da Pechino dove il libro scritto con Jabbour aveva ricevuto un premio. Nella differenza delle nostre visioni, i suoi commenti e consigli mi hanno aiutato quando ho iniziato a studiare l’economia politica della Cina. Questa breve recensione non riuscirà a sdebitarmi. 

Il sottotitolo del libro “Imprese, industria e innovazione” introduce agli argomenti portanti sui quali si dipana la ricerca empirica, ma nasconde in qualche modo il fine più alto del lavoro: discutere la natura e le specificità del “socialismo con caratteristiche cinesi”. L’evoluzione della struttura dei diritti di proprietà delle imprese e il ruolo del partito-stato nel promuovere innovazione tecnologica e scientifica qualificano e definiscono, secondo Alberto Gabriele, la natura “altra” del modello di sviluppo economico della Repubblica popolare cinese. 

Evoluzione, funzionamento e peculiarità del sistema di imprese cinese è tema al centro di un crescente interesse. La concorrenza imposta dall’attuale globalizzazione produttiva comporta una constante indagine sul “come competiamo” per dirla alla Berger. Produttività e profittabilità sono aspetti centrali, ma nel caso cinese, ancor più che altrove, un aspetto dirimente riguarda la struttura dei diritti di proprietà. Per aiutare il lettore ad inquadrare il dibattito, farò riferimento ad uno dei processi di “ibridizzazione” dei diritti di proprietà trattati nel testo, quello che concerne le “imprese municipali e di villaggio”, maggiormente note con il loro acronimo anglosassone di TVEs (Township and village enterprises). Alberto Gabriele definisce ambiziosamente le TVEs come “imprese non capitaliste orientate al mercato” in quanto portatrici di due aspetti peculiari. 

“In primo luogo, con il termine ‘orientata al mercato’ si identificano tutte quelle imprese che vendono i propri prodotti (o servizi) in uno o più mercati, ivi incluse quelle imprese che perseguono obiettivi complementari o totalmente diversi dalla massimizzazione del profitto, alcune delle quali operano in mercati che sono monopoli o quasi-monopoli. In secondo luogo, (…) comprendono tutte quelle imprese orientate al mercato che differiscono dal modello della classica impresa privata – un’unità produttiva che persegue fondamentalmente la massimizzazione del profitto, che si serve di manodopera non familiare, ed è dotata di pieni diritti di proprietà.” (p.60)

Una breve genesi delle TVEs permette di qualificare ulteriormente la tesi dell’autore. Nel periodo maoista (1949-1976), questo tessuto storico di piccole e medie imprese industriali rurali era posto sotto il controllo delle Comuni Popolari (rénmín gōngshè) che ne esercitavano i diritti di proprietà.  Queste imprese antenate delle TVEs comprendevano quindi tutte le attività produttive non agricole ed erano essenzialmente dedicate a fornire la produzione accessoria del settore primario (“servire l’agricoltura”), occupando una quota marginale dell’immensa forza lavoro rurale cinese prevalentemente impiegata come contadini. Questa industria rurale era tuttavia sistematicamente sottofinanziata in favore delle imprese di stato urbane (State-owned enterprises, SOEs), contribuendo a formare quel netto divario tra città e campagna che è ancora oggi un elemento centrale dell’economia cinese. Infatti, seguendo il modello sovietico, i pianificatori cinesi erano convinti che “lo sviluppo delle forze produttive” fosse strettamente associato al rapido miglioramento tecnologico a cui era sottoposta l’industria pesante monopolizzata dalle SOEs. Nel 1979, queste attività industriali rurali sono state riorganizzate nelle TVEs, che approfittarono della riduzione dell’asimmetria di finanziamento tra città e campagna, diventando un soggetto paradigmatico del “programma di riforme e apertura” (Gǎigé kāifàng). Secondo Alberto Gabriele, queste industrie rurali sperimentarono nuovi assetti istituzionali e organizzativi molto eterogenei tra loro che le resero particolarmente flessibili nell’organizzazione e nelle scelte di produzione. Le TVEs potevano produrre tutto ciò che non era monopolizzato dalle SOEs, creando così un’offerta diversificata che ha permesso, almeno in un primo momento, a queste imprese di trasformarsi in un fornitore monopolistico di alcuni piccoli beni di consumo, spingendo verso l’alto il loro margine di redditività. Le TVEs sfruttarono a pieno il decentramento del processo decisionale e le nuove linee di credito che il governo centrale garantiva loro, trasformando la precedente produzione accessoria al settore primario in un ambiente imprenditoriale vivace. L’ascesa delle TVEs come attore commerciale internazionale nell’industria leggera ad alta intensità di lavoro è fatto noto, ma Gabriele si concentra sulla loro funzione “storica”. Non nega che esse abbiano sperimentato un processo di concentrazione e privatizzazione negli anni ’90 ma enfatizza il carattere cooperativo e la proprietà collettiva che nel processo di riforma le hanno distanziate da “normali” imprese orientate al profitto: 

oltre alle imprese di proprietà dei governi locali, vi erano società per azioni private formate da contadini e altre forme di imprese individuali e collettive. Tutte però erano considerate sostanzialmente come agenti destinati a migliorare le condizioni di vita della comunità locale.” (p.87) 

Poiché i diritti di controllo residui erano detenuti dai governi locali, la comunità stessa «divenne una società de facto o un “miniconglomerato”»” (p.89)

Il libro enfatizza come una struttura di diritti di proprietà “ibrida”, o comunque non chiaramente e unicamente privata, abbia svolto una funzione fondamentale sia nella fase iniziale del decollo economico, sia nel protrarre un pervasivo controllo azionario che il Partito-Stato ancora esercita su moltissime imprese miste. 

La seconda parte del volume analizza il ruolo centrale che ha avuto il partito-stato nel creare un sistema nazionale di innovazione dal notevole successo. Secondo Alberto Gabriele, tale sistema di innovazione ha quattro principali caratteristiche: 

“i) la capacità e la volontà dello Stato di destinare alla ricerca e sviluppo una quota molto elevata e crescente del surplus nazionale; ii) il ruolo predominante svolto da attori non privati come le università pubbliche, i centri di ricerca, le organizzazioni governative, le imprese statali e a partecipazione statale; iii) la portata, l’impatto, la rilevanza e l’ambizione dei piani nazionali di ricerca e sviluppo a lungo termine; iv) l’ampia gamma, la pervasività e l’incidenza dei piani locali di ricerca e sviluppo”.

Il successo dell’innovazione made in China è oggi difficile da confutare anche per i più critici.  Nell’arco di poche decadi, la Cina ha rapidamente risalito le catene globali del valore, arrivando a competere direttamente con gli Stati Uniti sulla frontiera tecnologica e diventando il primo paese al mondo per numero di brevetti. 

Gabriele sottolinea due fonti cruciali che hanno permesso questa ascesa in ricerca e sviluppo. In primo luogo, la dimensione spaziale e demografica della Cina ha rappresentato “una condizione necessaria (ma non sufficiente) per consentire al suo Sistema Nazionale di Innovazione di balzare al secondo posto a livello mondiale, in una fase in cui il livello generale di sviluppo economico nazionale è ancora relativamente più arretrato (il Pil pro capite della Cina nel 2022 si è classificato al 72° posto tra 179 Paesi). 

In secondo luogo, pianificazione strategica e controllo sul sistema finanziario hanno permesso alla Cina di canalizzare moltissime risorse economiche verso centri di ricerca ed università pubbliche incaricate di condurre parallelamente ricerca di base e applicata.  Questo secondo aspetto merita maggiori osservazioni. Alberto Gabriele sottolinea come il carattere non prettamente privatistico e orientato al profitto di breve periodo abbia permesso al sistema di innovazione cinese di socializzare il rischio e creare dei forti effetti di spillover tecnologico tra pubblico e privato nella circolazione dei risultati della ricerca di base. Sviluppo, produzione e commercializzazione dei risultati della ricerca sono diventati obiettivi di interesse nazionale che hanno coinvolto tutte le imprese, a prescindere dalla tipologia di proprietà, con il fine di “massimizzare l’impatto sistemico complessivo sullo sviluppo dell’economia nazionale”. Imprese private cinesi di grandissimo successo come Oppo, Xiaomi, Huawei, Tencent, Alibaba, JD, Baidu, Lenovo, Douyin (Tik Tok), solo per citare le più famose, sono il risultato di questa compenetrazione tra ricerca pubblica e commercializzazione privata. Un ultimo aspetto sottolineato da Gabriele in questa seconda parte ci permette di legare il suo studio empirico sul sistema di innovazione con le sue valutazioni sulla natura del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Infatti, nonostante le imprese sopracitate siano formalmente private, Gabriele enfatizza come queste non rappresentino “una grande borghesia”: “almeno per adesso, una grande borghesia identificabile come classe vera e propria, e tantomeno come classe dominante” non esiste. Tuttavia, “Esistono grandi imprenditori-capitalisti (…) che costituiscono certo un nuovo gruppo sociale la cui importanza non può essere ignorata, malgrado la sua esiguità numerica”. Eppure, “questo gruppo sociale non costituisce una classe vera e propria” assimilabile alle grandi borghesie nazionali dei Paesi capitalistici. Tale “assenza di una grande borghesia costituisce un forte elemento di differenziazione tra la Repubblica popolare cinese e il mondo capitalista”.

Alberto Gabriele sostiene che i grandi imprenditori cinesi siano privi delle caratteristiche fondamentali di cui godono i capitalisti nostrani. Questi sono esclusi dalla sfera militare e non hanno la capacità di esercitare “un’egemonia cultura complessiva sulla società”, ma sono piuttosto “arruolati” dal partito-stato al fine di promuovere l’ascesa tecnologica ed industriale del paese:

Lo Stato socialista sembra avere preso atto che in alcuni settori chiave il ruolo centrale della grande impresa privata – controllata dallo Stato solo indirettamente attraverso canali formali e informali di natura non esclusivamente finanziaria – è insostituibile (almeno nell’attuale fase di sviluppo), e che può promuovere lo sviluppo economico e tecnologico, il benessere sociale e la stessa sicurezza nazionale in modo più efficiente di quanto non potrebbero fare la maggior parte delle aziende statali o a partecipazione statale, nonostante i grandi progressi compiuti soprattutto grazie al processi di corporatizzazione.” (p.199)

Alberto Gabriele non ha avuto il tempo di integrare organicamente, ma solo di citare, il recente “ridisciplinamento” del capitale privato da parte del partito-stato. Tuttavia, avendone discusso insieme, l’attacco di Xi Jinping alle “digital platforms” del 2020 era per lui una riprova della subordinazione politica e culturale del capitale privato al partito. Alcuni ricorderanno le ingenti multe ricevute dalle “Big tech” cinesi, responsabili di promuovere instabilità finanziaria, monopoli, e fughe di dati. A tale “espansione disordinata del capitale” (zīběn wúxù kuòzhāng) Xi Jinping ha contrapposto la “Prosperità Condivisa” (gòngtóng fùyù), la cui attuazione pratica in termini di riforma fiscale ancora latita. 

A partire da queste considerazioni sull’assenza di una “grande borghesia” in Cina, il libro si chiude con una delle domande più complesse di questo secolo: “L’economia cinese è essenzialmente socialista, o deve invece essere vista come un’economia capitalista di Stato o un’economia capitalista ibrida?” (p.213). 

Alberto Gabriele, senza pretese euristiche, tenta di operazionalizzare la domanda scomponendola in sette sotto-domande:

1. Quale quota dei mezzi di produzione è socializzata?

2. Quale potere economico relativo ha lo Stato rispetto ai singoli attori?

3. Qual è il rapporto di forze tra piano e mercato?

4. Quanto riesce il sistema a promuovere lo sviluppo delle forze produttive e il progresso tecnico?

5. Quanto è efficace nella lotta alla povertà?

6. Quanto è vicino a realizzare il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro” e a promuovere una distribuzione del reddito relativamente egualitaria?

7. Quanto è in grado di stabilire un rapporto sostenibile con la natura?” (p. 226):

Rispetto ai primi quattro quesiti, Alberto Gabriele sostiene che il “socialismo con caratteristiche cinesi” abbia sperimentato un discreto successo.  Reputa che “il grado complessivo di socializzazione della produzione sia piuttosto elevato”, che il partito-stato sia riuscito, come si diceva, a prevenire la formazione di una “grande borghesia, e che il progresso tecnico sia innegabile. Tuttavia, riconosce che la sua analisi sia insufficiente ad avanzare argomentazioni positive per quanto concerne gli ultimi tre, non proprio marginali, quesiti:

Nonostante il qualificato riconoscimento dei risultati positivi e della natura socialista relativamente avanzata della struttura economica, l’analisi condotta in questo libro dice poco sui limiti e le contraddizioni di questo tipo di “socialismo” rispetto alla coerenza della realtà della Repubblica popolare con gli obiettivi di sviluppo umano tradizionalmente sostenuti dal movimento socialista mondiale”. (p.228). 

Senza girarci troppo intorno, Alberto Gabriele ritiene che una qualche forma di capitalismo di stato “sia una componente necessaria di qualsiasi tentativo di costruire un socialismo del XXI secolo orientato al mercato, ma diretto dallo Stato” (p.232)

Il mio non essere d’accordo non toglie nulla al fatto che questi interrogativi siano urgenti. Nella bulimia di pubblicazioni in lingua italiana sul modello di sviluppo cinese, che non siano drogate dal rinnovato “scontro di civiltà” a la Rampini, questo testamento intellettuale di Gabriele ci permette quantomeno di approfondire le peculiarità del “socialismo con caratteristiche cinesi”.  Nonostante il libro, ad avviso di scrive, risulti eccessivamente apologetico nei confronti dei limiti “politici” della Repubblica popolare cinese, questo ha comunque il merito di porsi domande corrette e di essere animato da umiltà e spirito critico. La struttura dei diritti di proprietà e il sistema di innovazione nazionale permettono infatti, se non di comprendere, quantomeno di indagare, come la miscela di stato e mercato, di Partito e capitale abbiano reso la Cina l’unico sfidante possibile all’ordine egemonico statunitense. Un ordine sempre più messo in discussione da forze centrifughe interne e da rivendicazioni multipolari esterne, incancrenito da una crisi ecologica senza precedenti e da uno stato di guerra permanente. 

Mi auguro che queste ultime citazioni tratte dalle opere selezionate di Mao, possano restituire l’ambizione, la dialettica e la complessità dei quesiti posti da Gabriele. 

Il modello economico sperimentato attualmente dalla Cina, è un’economia capitalista che per la maggior parte è sotto il controllo del governo popolare, collegata all’economia socialista statale in varie forme e supervisionata dai lavoratori. (…) Pertanto, questo capitalismo di stato rappresenta un nuovo modello economico, in cui il carattere socialista in larghissima misura va a vantaggio dei lavoratori e dello Stato.” (Mao, 1953)

Se la generazione dei nostri figli porterà avanti il revisionismo andando in direzione a noi contraria, cosicché pur avendo nominalmente una società socialista essi vivranno il capitalismo, allora i nostri nipoti si solleveranno certamente in rivolta e rovesceranno i loro padri, perché le masse non saranno soddisfatte” (Mao, 1962). 

Ciao Alberto. 

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