Un grande giornalista sportivo gli ripeteva che la tribuna stampa del ciclismo è la strada e Beppe Conti ne ha respirata tanta di polvere, seguendo le corse, a bordo di auto e di moto. Lo ha fatto per decenni, dagli anni Settanta, per i suoi resoconti brillanti sulla Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Tuttobici e, in tempi più recenti, nelle dirette Rai. Ha redatto pagine rosa o bianche, poi ha diffuso la sua voce chiara dall’etere, adesso è in particolare un fecondo scrittore di cose ciclistiche, che ricorrono nella pubblicazione più recente dopo non pochi testi precedenti: Ciclismo. Storie segrete. Vicende, retroscena e notizie riservate dei campioni di ieri di oggi, edito da Diarkos di Sant’Arcangelo di Romagna, nella collana Grande Sport (dicembre 2023, 228 pagine).
Torinese, classe 1951, Beppe è stato ed è l’erede del giornalismo ciclistico d’eccellenza, delle più grandi firme delle due ruote raccontate: Bruno Raschi, Gianni Brera, Gianni Mura e, in ruoli specifici, Sergio Zavoli ideatore del “Processo alla tappa” e Adriano De Zan, con le sue indimenticabili telecronache.
Una o più generazioni che purtroppo non ci sono più, tutti specializzati nel ciclismo e Giuanin Brera in tutto lo scibile umano. Beppe Conti c’è, invece e continua a farci emozionare con la sua parlata affabile, con i ricordi, con i segreti rivelabili dei campioni e qualche mistero svelato, anche e soprattutto nei suoi libri.
Questo riserva peraltro un motivo di particolare emozione: la prefazione di Claudio Ferretti, telecronista Rai prematuramente scomparso nel 2020, figlio di un altro gigante del giornalismo del pedale, Mario Ferretti, grande raccontatore in diretta radio di eventi sportivi che rendeva epici. Osservato dal vivo, il ciclismo è lunghe attese e un lampo veloce in un fruscio di ruote e quello seguito sullo schermo inquadra avvincenti avventure quotidiane, ma se ascoltato senza immagini diventa vera magia, soprattutto quando a esaltare imprese che non vedi è una voce trepidante: “un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.
Ricordo bene Mario Ferretti, non dimentico il timbro emozionato e coinvolgente che appassionava noi piccoli pescaresi, quando descriveva dal vivo le continue fughe, le non poche litigate e qualche bizza di un altro indimenticabile: Vito Taccone, il primo “camoscio d’Abruzzo”. Nei primi anni Sessanta, le auto in circolazione in città erano poche e tutti i bambini del vicinato giocavano per strada, di pomeriggio, a maggio-giugno, mentre dalle finestre aperte delle case intorno si diffondevano le dirette radio del Giro d’Italia.
Questa è una storia di ciclisti e i ciclisti sono uomini, quindi è una storia di uomini, di successi strepitosi e di debolezze, anche di paure, di dubbi, di errori.
Beppe Conti premette che l’idea è raccontare alla gente le storie che i suiver al seguito delle carovane del ciclismo raccontano tra loro, nelle pause tra una sfida e l’altra.
Nessun desiderio di suscitare scandali, di fare scalpore o infangare uno splendido sport “troppe volte bistrattato”.
Muove dal ciclismo dei primordi, dal Tour che ha rischiato di chiudere alla seconda edizione del 1904 per problemi di ordine pubblico e dfi non vedere il via l’anno successivo. Era sfuggito di mano agli organizzatori, si era visto di tutto: colpi di pistola e bastonate, chiodi sparsi per strada, lanci di sassi nella notte, corridori randellati, presi a pugni, feriti gravemente. Allora si correvano tapponi di quattrocento chilometri e più, con medie inferiori ai trenta all’ora e si partiva o si arrivava con buio, affrontandone comunque tanto. Nell’oscurità, agirono malintenzionati per varie ragioni.
Poi, ovviamente, spazio ad alcuni campioni dell’epoca del mito, Binda, Magni, Bartali, Coppi e i loro coequipier, un ciclismo appena sfiorato dalle cineprese e dalle telecamere, che ora inquadrano in primo piano perfino i bottoni degli scarpini.
Uno dei tabù di quegli anni era il sesso. Si riteneva che praticarlo nuocesse gravemente al ciclista.
Conti rivela che ai tempi epici e gloriosi del ciclismo eroico, le donne erano tenute a distanza dai ciclisti, perché viste come tentatrici.
Non a caso, il libro di Gianni Brera sulla storia tra Fausto e la Dama Bianca ebbe per titolo Coppi e il diavolo. Non erano ammesse a viaggiare in carovana. Non è leggenda la storia di una giornalista che si travestì da uomo, per seguire il Giro d’Italia negli anni Cinquanta.
Avvicinandosi ai nostri tempi, si fa tappa necessariamente a Madonna di Campiglio 1999, passando per eventi topici che hanno per protagonisti Anquetil, Nencini, Defilippis, toccando il giallo del doping di Merkx, la rivalità Moser-Saronni e i tanti segreti, misteri, misfatti, leggende di grandi corse a tappe e classiche monumento. L’autore rilegge il giallo che sottrasse a Marco Pantani un Giro d’Italia praticamente vinto, con l’esclusione in maglia rosa dalla corsa, per i valori di ematocrito nel sangue risultati fuori norma al controllo ufficiale, ma riscontrati entro i limiti nelle verifiche effettuate dal campione romagnolo prima e dopo i prelievi dell’equipe sanitaria UCI.
Si chiude con Fabio Aru, l’ultimo campione italiano del pedale che avrebbe potuto essere tanto e non è stato, dopo lo squalo Nibali.
Ci si interroga ancora sulle cause dei risultati zero dopo l’ingaggio in una sontuosa formazione ciclistica (l’UAE di Pogacar, diretta da Giuseppe Saronni) e dell’inglorioso ritiro dal Tour 2020, vinto proprio dal “Pogi” sloveno.
Beppe Conti avanza un’ipotesi. Senza anticipare nulla, diremo che qualcuno ha commesso uno o più errori. Peccato, siamo rimasti senza un nome che sembrava lanciato verso una luminosissima carriera, finita a ventisette giovani anni.
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