Recensione del libro: “La mia vita da numero 10” di Evaristo Beccalossi con Eleonora Rossi- Pagine di Sport
18 Giugno 2024

Recensione di A.C., professore di lingua e letteratura italiana e latina, giornalista e appassionato di sport

Da giocatore, Evaristo Beccalossi mi piaceva. Perché giocava a testa alta e calciava di destro e di sinistro, perché ubriacava l’avversario in dribbling oppure lo superava con il tunnel. Aveva fantasia, visione di gioco e sapeva fare gol. È vero, talvolta quasi non lo si vedeva in campo, oppure insisteva un po’ troppo nel gioco individuale. Faceva parte, nella mia personale classificazione, di quei giocatori che chiamavo «genio e assenza», perché succedeva che quasi non si vedessero per gran parte della partita, assenti insomma, ma poi con un colpo di genio risolvessero da soli la gara. Così era, ad esempio, Mariolino Corso, ma anche Gianni Rivera. Per me, comunque, erano i giocatori per cui valeva la spesa pagare il biglietto.

Insomma Beccalossi mi piaceva. E poi su di lui ho un piacevole ricordo personale. Nel dicembre del 1984 ho avuto l’occasione di assistere ad un allenamento della Samp a Bogliasco. Mentre aspettavano l’inizio dell’allenamento vero e proprio, i giocatori facevano riscaldamento a calcio-tennis. Ricordo Souness e Salsano, Pari e Scanziani, Mannini e Bordon; forse c’era anche Roberto Mancini, ma non ricordo di averlo visto. Ricordo benissimo, invece, Luca Vialli ed Evaristo Beccalossi, per il loro modo scanzonato di interpretare il riscaldamento: Beccalossi alzava il pallone e Vialli in rovesciata lo schiacciava oltre la rete. Gli altri applaudivano. Hanno ripetuto l’esibizione tre o quattro volte e a me hanno dato l’impressione di due ragazzi che intendevano il calcio soprattutto come divertimento. Anche per questo Beccalossi mi è diventato simpatico.

Eppure, nonostante ciò, quando la casa editrice Diarkos mi ha inviato il libro di Evaristo Beccalossi, «LA MIA VITA DA NUMERO 10», l’ho tenuto per diverse settimane sulla mia scrivania senza che mi venisse voglia di aprirlo. Non per antipatia verso il personaggio, come ho già detto. Il problema, per me, era quel «numero 10». Per quelli della mia età, i numeri sulla maglia avevano un significato ben preciso: identificavano un ruolo ben definito, un modo di giocare, di stare in campo, persino uno stile. E il «10» aveva un significato tutto particolare: voleva dire Pelè e Sivori, Rivera e Suarez; e poi, in epoca più recente, Platini e Zidane, Maradona e Roberto Baggio, Zola, Del Piero e Totti sino a Johan Cruijff (anche se portava il 14) e Leo Messi. Poteva starci Evaristo Beccalossi in questa schiera di «numeri 10»? Sinceramente, mi sembrava di no.

Poi un giorno ho preso in mano il libro. Per rispetto verso l’autore e la casa editrice, e perché non si può scartare un libro senza conoscerlo bene. E così l’ho letto. Ed è stato un piacere. Perché è scritto bene, anzitutto, e il contenuto non è mai banale. Beccalossi non si si esalta al di là di quello che è stato (che comunque non è poco). E alcuni dei «numeri 10» del mio elenco, li cita anche lui riconoscendone la grandezza. Per quattro di questi, Sivori, Rivera, Cruijff e Maradona, usa parole molto belle: «Sono stati fonte di ispirazione e mi hanno fatto amare ancora di più il gioco del calcio». Una dichiarazione che mi è molto piaciuta.

Nel libro, con la collaborazione di Eleonora Rossi, Beccalossi, dopo aver ricordato l’umiltà della sua famiglia, ripercorre la sua carriera calcistica, dall’oratorio del quartiere San Paolo al Brescia, con cui ha esordito in serie A quando aveva 16 anni soltanto. Poi, nell’estate del 1978, il passaggio all’Inter del presidente Ivanoe Fraizzoli e dell’allenatore Eugenio Bersellini, con la quale ha giocato per sei anni consecutivi, vincendo una Coppa Italia (un’altra l’ha vinta con la Samp) e soprattutto lo scudetto 1979-1980, l’ultimo conquistato da una squadra composta da soli giocatori italiani. Segue il passaggio alla Sampdoria, dove è rimasto un anno soltanto senza trovare quelle soddisfazioni che si aspettava. Poi il ritorno all’Inter, proprietaria del suo cartellino, ma subito invitato a trovarsi un’altra sistemazione, che ha significato la discesa prima in serie B (Monza, Brescia, Barletta) e infine tra i dilettanti.

Questo il percorso della carriera di Beccalossi, ma quello che interessa nel libro, e lo fa apprezzare, è come lui descrive il calcio di quegli anni, che non sono lontanissimi, ma di fatto rappresentano un’altra era calcistica. Ricorda con simpatia e amicizia, tratteggiandone un breve ritratto, tutti i suoi compagni dell’Inter dello scudetto, sottolineando l’amicizia vera che si era creta tra di loro: «Una squadra piena di campioni che litigano e difficilmente otterrà grandi risultati. Quando capita invece quella speciale alchimia fra giocatori che unisce l’aspetto tecnico a quello umano, i risultati possono raggiungere livelli di eccellenza». È successo all’Inter 1979-1980, succede ancor oggi: gli esempi, in positivo e in negativo, non mancano. Dedica poi uno spazio ai primi «stranieri» con cui ha giocato dopo l’apertura delle frontiere calcistiche.

Abbellisce la descrizione con episodi particolari e aneddoti interessanti. Per esempio la sua difficoltà ad accettare la preparazione atletica imposta da Bersellini e dal preparatore Onesti: «Datemi un pallone e sono capace di restare sul campo di allenamento per quindici ore filate. Mettetemi però a fare scatti e allunghi con fischietto e cronometro e al minuto uno sono già stufo», sintetizza.

A me è piaciuto molto il modo, mai trionfalistico, con cui Beccalossi ripercorre i suoi momenti di gloria calcistica, ma ancora di più, vorrei dire, il tono, mai vittimistico, con cui descrive i suoi «insuccessi»: la mancata convocazione in Nazionale per i Mondiali dell’82, lo scarso impiego nella Samp, la discesa in B e poi nei dilettanti. Non accusa nessuno, se non chi si è impadronito del suo cartellino che lui gli aveva dato gratis.

A margine del calcio, sono interessanti i racconti di alcune passioni del «Becca». Per la auto, anzitutto, e per l’automobilismo, una passione che lo ha portato a conoscere Gilles Villeneuve e addirittura Enzo Ferrari. Interessante anche l’incontro con John McEnroe: è stato lo stesso tennista a chiedere di lui dopo averlo visto giocare a San Siro. Evidentemente i fantasisti si attraggono.

E poi la passione per la musica, «una forma espressiva che tocca l’animo nel profondo». Ricorda i suoi contatti con tanti musicisti, soprattutto interisti, in particolare con due di cui è diventato amico «nel vero senso della parola»: Franco Califano ed Enrico Ruggeri, che non a caso scrive la prefazione al libro. E l’amicizia con l’artista Paolo Rossi, che gli ha dedicato la famosa pièce sui due rigori sbagliati contro lo Slovan Bratislava.

Tanti ricordi, insomma. Con alcune riflessioni finali, rivolte ai giovani calciatori e alle loro famiglie, frutto della sua esperienza passata e del ruolo che attualmente ricopre come capodelegazione delle Nazionali Under 19 e Under 20.

Un libro agile, ricco, da leggere. Anche senza essere interisti.

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