Viviamo in un’epoca che idolatra l’efficienza, la prestazione, la forza. Ma se il vero motore dell’umano fosse invece la fragilità? È questa la provocazione – radicale e necessaria – che attraversa Teoria della fragilità. Alla ricerca di un potere nascosto, l’ultimo saggio di Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e intellettuale militante. Un libro che unisce filosofia, antropologia, medicina e politica per ribaltare la nostra idea di debolezza e restituirle dignità, senso e forza trasformativa. Lo abbiamo incontrato per parlare con lui di questo “potere nascosto” che può ancora salvarci.
Dottor Gramiccia, la sua teoria parte da un rovesciamento netto: la fragilità non come debolezza, ma come condizione originaria dell’uomo. Da dove nasce questa intuizione?
Nasce dalla mia lunga esperienza di medico e osservatore del mondo. In clinica, come nella vita, ho visto che la fragilità non è un incidente ma la nostra condizione costitutiva. L’uomo è un essere carente, come scriveva Arnold Gehlen: privo di un istinto che lo guidi, vulnerabile alla natura, costretto a inventare cultura e tecnica per sopravvivere. È fragile prima ancora di essere forte, e proprio da quella mancanza scaturisce la sua creatività, la sua umanità, la sua possibilità di trasformare il mondo.
Nel libro lei mostra come la fragilità generi la tecnica, la cultura, la storia stessa. Non è un paradosso?
È un paradosso solo in apparenza. Senza la fragilità, l’uomo non avrebbe avuto bisogno di creare. È il limite che ci spinge a cercare strumenti, a pensare, a costruire mondi. La techne nasce dal bisogno di colmare un vuoto. Ma ogni rimedio genera nuovi rischi: la stessa tecnica che ci emancipa può renderci dipendenti e distruttivi. Oggi assistiamo a una fragilità rovesciata: quella di una civiltà che, credendosi onnipotente, si autodistrugge. Guerre, crisi climatiche, solitudini digitali sono il prezzo di un progresso “scorsoio”, come lo chiamava Zanzotto.
Lei scrive “Fragile ergo sum”, capovolgendo il celebre motto cartesiano. Cosa significa, oggi, pensarsi così?
Significa riconoscere che esistiamo perché siamo fragili. La consapevolezza del limite – della morte, del dolore, dell’errore – è ciò che ci distingue. Cartesio diceva “penso dunque sono”, ma prima del pensiero c’è il turbamento, lo sgomento di chi sa di essere finito. Da quella consapevolezza nasce la riflessione, la cura, l’arte, la solidarietà. È un modo per spostare il baricentro: dall’arroganza della forza alla verità dell’umano. In questo senso, la fragilità è una forma di intelligenza.
Intervista al link: https://www.ilquotidianodellazio.it/libri-roberto-gramiccia-la-fragilita-e-la-nostra-forza-nascosta.html